Definito il “cardinale della pace”, Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui nella Repubblica centroafricana, è il più giovane membro del collegio cardinalizio. La sua missione è di alto livello umanitario, impegnato come è in uno dei Paesi con la situazione più difficile del continente africano. Sarà presente al Meeting di Rimini il 21 agosto alle ore 14 insieme a Marina Sereni, viceministra degli Esteri e della Cooperazione internazionale, per parlare delle principali sfide, futuro e prospettive di sviluppo sostenibile dell’Africa Sub Sahariana.



L’Italia, ci ha detto il viceministro in questa intervista, è attivamente impegnata in questo contesto:Sul piano della cooperazione allo sviluppo riteniamo fondamentale realizzare interventi capaci di rispondere alle reali esigenze locali, sulla base di un approccio integrato fondato sul nesso tra aiuto umanitario, sviluppo e pace. Dei 20 Paesi prioritari della nostra cooperazione allo sviluppo, 11 sono africani ed è lì che investiamo la maggior parte delle nostre risorse”.



A proposito dell’altro teatro difficile odierno, la guerra in Ucraina, Sereni ha così risposto a chi critica la presenza della Nato nei Paesi dell’ex blocco sovietico: “È comunque precisare che, proprio perché la Nato è un’Alleanza difensiva che ha una precisa dimensione territoriale – nonostante una certa narrativa imprecisa – essa in realtà ad oggi non è intervenuta direttamente nel conflitto, non essendo l’Ucraina parte della Nato. Il sostegno militare diretto all’Ucraina viene offerto dalla Ue e da un gran numero di Paesi anche non Nato”.

Lei parteciperà all’incontro con il card. Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, Centrafrica. L’Africa sub sahariana è un territorio devastato da povertà, migrazioni e espansionismo jihadista. Quale è il concreto impegno italiano in questo territorio, visto che nel Sahel passano molte rotte di migranti che poi arrivano alle coste libiche?



L’Africa è una priorità assoluta della politica estera italiana. Nel 2020, per la prima volta, il ministero degli Esteri ha elaborato un documento strategico sul partenariato che vogliamo e dobbiamo costruire con il continente africano, con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo ma anche con quelli dell’Africa sub-sahariana, a cominciare dal Sahel e dal Corno d’Africa. Siamo impegnati a promuovere un adeguato bilanciamento tra il contributo sul piano della sicurezza, del rafforzamento delle istituzioni e della cooperazione allo sviluppo. 

Come si impegna il nostro Paese, concretamente?

L’Italia favorisce un approccio multilaterale alla soluzione delle crisi securitarie nella regione, valorizzando il ruolo delle Organizzazioni regionali come l’Ecowas, l’Unione Africana, l’Alleanza per il Sahel e la Coalizione per il Sahel. Nel quadro della nostra partecipazione all’Unione Europea, sosteniamo le missioni civili e militari dell’Ue, come Eutm Mali, Eucap Sahel Mali ed Eucap Sahel Niger. Nel contesto onusiano, siamo impegnati nella missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali (Minusma).

E’ coinvolto anche il sistema privato?

Partendo da queste premesse, abbiamo organizzato la Conferenza ministeriale “Incontri con l’Africa”, che ha visto un’importante partecipazione anche da parte del sistema privato. L’Italia prosegue inoltre con il rafforzamento della presenza diplomatica nella regione, già avviata negli ultimi anni con l’apertura delle ambasciate in Niger, Guinea, Burkina Faso e Mali, a cui si aggiungerà a breve una nuova Sede in Ciad.

Nonostante le sue condizioni, quale ruolo svolge il continente africano nello scenario globale?

L’Africa è un continente che soffre per i tanti conflitti in corso, per l’avanzata del terrorismo di matrice islamista, per gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici… ma è anche un continente di opportunità e possibilità, ricco di risorse naturali e soprattutto di una risorsa umana straordinaria di giovani e donne. L’Europa deve guardare di più all’Africa e l’Italia può contribuire in questa direzione. Europa e Africa sono unite da sfide enormi sul terreno della sicurezza, dello sviluppo sostenibile, della salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, del contrasto ai fondamentalismi e della tutela dei diritti umani, della gestione dei fenomeni migratori. Ecco, penso che dobbiamo smettere di guardare all’Africa solo come il luogo delle tensioni e dei flussi migratori. Crediamo che l’Africa sia prima di tutto il continente delle opportunità. Per questo mettiamo i giovani al centro della nostra cooperazione e puntiamo a rafforzare il loro ruolo a livello economico, culturale e civile, favorendo la creazione di impiego e lo sviluppo di competenze attraverso percorsi di formazione professionale.

La Francia è stata impegnata per anni in Mali e altrove, con risultati non positivi. Cosa fa e cosa dovrebbe fare l’Europa per intervenire in questi territori in aiuto della popolazione e per fermare il radicalismo islamista?

È molto preoccupante la sequenza di colpi di stato che hanno interessato il Mali e altri Paesi africani. La Francia – con la quale l’Italia condivide obiettivi e strategie anche a seguito della firma del Trattato del Quirinale – è da lungo tempo impegnata nella regione, contribuendo – con un elevato prezzo in termini di vite umane – a favorire la stabilità, la sicurezza e lo sviluppo dei Paesi dell’Africa occidentale. Sebbene non sempre a questi sforzi siano contrapposti esiti auspicati, non va dimenticato che il progressivo e crescente intervento di numerosi attori esterni alla regione – che agiscono con regole di ingaggio molto differenti dalle nostre – abbia mutato il già complesso contesto saheliano. La comunità internazionale, l’Europa e l’Italia non intendono abbandonare il Sahel e continueranno a collaborare con le autorità di quei Paesi per contrastare l’avanzata dei gruppi terroristi e promuovere transizioni democratiche, pacifiche e inclusive.

Oltre alle missioni militari, cosa altro andrebbe fatto?

L’esperienza di questi anni ci dice che non basta la dimensione securitaria e militare: serve intensificare gli sforzi politici e soprattutto serve sostenere le comunità locali, creare opportunità per i giovani alternative alla violenza e ai traffici illegali. L’Italia sostiene progetti in questa direzione attraverso il Fondo migrazioni e la Cooperazione. Supportiamo inoltre l’azione del Gcerf, un fondo dedicato alla prevenzione della radicalizzazione che punta sul coinvolgimento della società civile e delle comunità locali.

In che modo vi muovete?

Abbiamo condotto una riflessione sulla strategia da adottare in materia di cooperazione allo sviluppo nei Paesi segnati da colpi di Stato e svolte autoritarie. Siamo convinti che in tali contesti non sia possibile agire con un approccio “business as usual”. Ci siamo dati una linea equilibrata e flessibile. Da un lato, abbiamo deciso di rallentare le iniziative che vedono come partner Autorità governative; dall’altro lato, riteniamo necessario continuare a sostenere i progetti affidati a Organizzazioni internazionali o a Organizzazioni della società civile e ricadenti in ambiti legati a esigenze essenziali della popolazione, come salute, sicurezza alimentare, educazione.

La cooperazione internazionale, di cui lei è sempre stata protagonista di primo piano, che valore e che ruolo riveste oggi?

Per dirlo con le parole di Papa Paolo VI, “lo sviluppo è il nome della pace”: se vogliamo prevenire i conflitti armati, o contribuire a fermarli, dobbiamo guardare alle cause profonde da cui essi originano. E in gran parte del mondo  in Africa ma anche in Medio Oriente  scopriamo che la fame, la povertà, l’assenza di dignità e di prospettiva perpetuano le guerre. Abbiamo il dovere, per ragioni morali, di aiutare i Paesi che versano in condizioni di povertà, spesso avendo in realtà straordinarie risorse che però non vengono sfruttate per lo sviluppo e il benessere delle comunità. Ma dobbiamo farlo anche per una ragione “egoistica”: non ci sarà mai sicurezza per nessuno in un mondo segnato da così insopportabili diseguaglianze e ingiustizie. Questo è tanto più vero nel momento storico attuale, in cui le spinte contrarie alla cooperazione sono numerose e spesso molto forti. Ovviamente il riferimento all’Ucraina è d’obbligo, tuttavia non possiamo dimenticare le crisi protratte di cui si parla sempre meno, verso le quali il nostro impegno non può diminuire. Ecco perché credo molto nel ruolo della cooperazione italiana e mi sono battuta in questi anni, ottenendo alcuni risultati importanti ma ancora parziali, per aumentare le risorse: siamo passati dallo 0,20 del Pil nel 2020 allo 0,29 nel 2021. Dobbiamo fare ancora di più e raggiungere l’obiettivo dello 0,70 come ci siamo impegnati a fare a livello internazionale e con l’Agenda 2030. 

Ha citato la guerra in Ucraina. Ritiene che l’impegno del governo Draghi a favore di Kiev con anche l’invio di armi sia un impegno che dovrà durare ancora, un impegno anche per il prossimo governo?

È doloroso vedere quanti lutti e quanta distruzione stia provocando l’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. Siamo ormai a sei mesi da quel drammatico 24 febbraio e, purtroppo, la guerra non accenna a fermarsi. Come Paese fondatore dell’Unione Europea e della Nato, possiamo e dobbiamo naturalmente contribuire alle riflessioni collettive sulle scelte da adottare, con visione e lungimiranza ma, allo stesso tempo, senza ambiguità. È quanto ha fatto il Governo Draghi tracciando in maniera molto chiara una linea che, ritengo, anche il prossimo Esecutivo – al di là del colore politico – seguirà, nella consapevolezza che solo muovendoci in sincronia con gli altri Stati membri dell’Ue e Alleati, oltre che nel quadro del G7, saremo in grado di affrontare le straordinarie sfide che un contesto internazionale sempre più fluido e instabile ci pone dinnanzi e che, in molti casi, non sono più differibili. Non possiamo accettare l’idea di un mondo in cui l’uso della forza torni ad essere il principio ordinatore delle relazioni tra gli Stati. Una guerra protratta può essere nei piani di Putin ma non è nell’interesse dell’Europa e del mondo. 

Sembra impossibile portare le due parti, quella russa e quella ucraina, a un tavolo di pace. Cosa non ha saputo fare e invece dovrebbe fare l’Europa? Ritiene le critiche mosse anche da parte del popolo italiano al ruolo della Nato siano ingiustificate? 

Tornando indietro al 2014, all’invasione russa della Crimea e al conflitto nelle regioni del Donbass, credo dobbiamo tutti riconoscere autocriticamente due elementi.

Quali?

Il primo, di non aver colto fino in fondo le ambizioni e il disegno strategico di Putin, coltivando in qualche misura l’illusione di poter gestire un conflitto “congelato” ai confini dell’Europa. Il secondo, connesso a questo elemento di sottovalutazione: non aver fatto tutto il possibile per attuare pienamente gli Accordi di Minsk e non aver ingaggiato la Russia in un confronto più ampio sulla sicurezza europea. Purtroppo questa guerra ci ha fatto ripiombare in una contrapposizione che pensavamo fosse stata archiviata con la caduta del Muro e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma il mondo di oggi è molto più interconnesso di quello della guerra fredda e non possiamo accedere ad una narrazione “the West against the rest” che rischia di rendere estremamente più debole anche la lotta contro minacce globali come il terrorismo, le pandemie e il cambiamento climatico. 

Risultati positivi ci sono stati?

Il grande risultato che l’Unione ha raggiunto in occasione di questo conflitto è stato quello di trovare un’unità d’intenti ed un’immediata sintonia politica per quello che riguarda il sostegno umanitario alla popolazione ucraina ed economico-militare alle forze armate di questo Paese: quello che c’è da augurarsi è che questa ritrovata intesa europea rimanga fra gli Stati membri anche per quel che riguarda un’azione più strettamente diplomatica e che sia sempre più il frutto di iniziative concertate dal più ampio numero di Stati. Quanto alla Nato, è bene ricordare essa è un’alleanza politico-militare a carattere difensivo. È chiaro a tutti che in questa circostanza vi è un aggressore, la Russia, ed una parte aggredita, l’Ucraina. Ed è proprio quale conseguenza dell’aggressione russa e della minaccia che questa rappresenta alla stabilità e alla sicurezza dell’intero continente europeo che la Nato ha negli ultimi mesi deciso di rafforzare la difesa del territorio dell’Alleanza in chiave di deterrenza. Ed è sempre quale conseguenza dell’aggressione russa che Paesi come la Finlandia e la Svezia, che finora avevano perseguito un proprio autonomo approccio alla sicurezza, hanno democraticamente e legittimamente chiesto di entrare a far parte della Nato, nel timore di subire il sovvertimento di quell’architettura di sicurezza che ha garantito pace e stabilità in Europa per diversi decenni.

Tenere sempre aperti i rapporti diplomatici, è questa la strada?

Certamente. Quest’ultima domanda mi consente di valorizzare un ulteriore elemento della nostra azione in relazione alla guerra russo-ucraina, ovvero il nostro incessante impegno e sostegno a favore di ogni utile interlocuzione tra le parti affinché si creino le condizioni per un’interruzione delle ostilità e, auspicabilmente, nel tempo, per un vero negoziato che porti ad un accordo di pace, non imposto con la prevaricazione da una parte all’altra ma condiviso. In questo senso, gli accordi di Istanbul del 22 luglio sul trasporto sicuro del grano dai porti dell’Ucraina attraverso il Mar Nero, raggiunti grazie alla mediazione delle Nazioni Unite e alla facilitazione della Turchia, sono un primo passo nella giusta direzione. Da lì dobbiamo cercare di partire per ottenere altri obiettivi. Penso al tema della protezione dei civile e delle infrastrutture civili e anche alla questione molto delicata della centrale nucleare di Zaporizhzhia.

Il ruolo dell’Italia nella crisi libica: vede qualche speranza? Quali mosse per aiutare i tanti migranti fermi nei lager libici manipolati dai trafficanti di uomini?

La crisi libica, che si protrae purtroppo da più di un decennio, ci riguarda da vicino: forse più da vicino di altre crisi che al momento attirano su di sé l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. L’Italia ne è consapevole ed è in prima linea nel sostegno agli sforzi internazionali per comporre la crisi in atto, in primis attraverso la mediazione delle Nazioni Unite. L’obiettivo della nostra azione in Libia è di contribuire a rimarginare le profonde lacerazioni politiche e istituzionali del Paese, sostenendo le Nazioni Unite nel delicato compito di favorire il ripristino di un percorso politico che conduca in tempi rapidi ad elezioni libere, trasparenti e inclusive, in grado di soddisfare le legittime aspirazioni democratiche del popolo libico. È un compito arduo che richiede pazienza e perseveranza: soprattutto, richiede la capacità di guardare oltre l’orizzonte del breve periodo. Inevitabilmente, l’instabilità libica si ripercuote anche sul fronte migratorio. Se è vero che le cause del fenomeno sono estremamente complesse, è altrettanto evidente che una Libia frammentata, ostaggio di milizie e potentati locali, rappresenta terreno fertile non solo per il transito di migliaia di migranti, ma anche per i loschi affari dei trafficanti.

Il problema migranti come si affronta?

L’Italia è da sempre uno dei Paesi più impegnati nel contrasto al traffico di esseri umani, fenomeno che può essere affrontato esclusivamente tramite un approccio onnicomprensivo e nel pieno rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. Siamo ancora l’unico Paese europeo ad effettuare trasferimenti di rifugiati attraverso i corridoi umanitari. Inoltre, sosteniamo attivamente gli sforzi delle principali organizzazioni internazionali attive in Libia, come Unchr e Oim. Dal 2017, la Farnesina ha investito oltre 84 milioni di euro per migliorare le condizioni di vita di migranti e rifugiati in Libia. Continuiamo ad impegnarci affinché le autorità libiche si impegnino in termini sempre più stringenti al rispetto dei diritti fondamentali. E la questione del definitivo superamento del sistema dei centri di detenzione è proprio uno dei principali punti negoziali su cui l’Italia insiste e continuerà a insistere.

(Paolo Vites)