biden putinLa Danimarca è stata per qualche giorno al centro dell’attenzione mediatica per lo scandalo dello spionaggio della Nsa statunitense su Angela Merkel e altri esponenti politici europei. È probabile che nei prossimi giorni rimarrà probabilmente sulla scena, ma per un’altra questione: la legge sui richiedenti asilo approvata dal Parlamento su proposta del governo socialdemocratico.
La legge ha avuto forti critiche sia dall’Onu che dall’Ue, in quanto prevede che i richiedenti asilo vengano inviati in un altro Paese al di fuori dell’Unione, dove rimarranno in attesa della risposta alla loro richiesta. “Speriamo così che smetteranno di cercare asilo in Danimarca” ha dichiarato il portavoce del governo danese citato dalla Reuters. Nello stesso articolo si precisa che non si è ancora scelto dove concentrare i richiedenti, ma si parla del Rwanda come una possibilità, a seguito di un recente accordo in materia di asilo firmato dal ministro danese dell’Immigrazione, Mattias Tesfaye, figlio di un immigrato etiope.
Lo “scandalo” spionaggio tra alleati aveva già forse perso un po’ del suo interesse, anche per la lontananza dei fatti, accaduti tra il 2012 e il 2014. Già nel 2013, d’altronde, Edward Snowden aveva denunciato intercettazioni statunitensi sul telefono della Merkel. Da parte di alcuni commentatori si è poi cominciato a indicare come non strano che lo spionaggio riguardasse anche alleati, in nome della sicurezza nazionale e del fatto che, anche tra alleati, ciascuno segue innanzitutto i propri interessi.
Una prima domanda è quindi quali interessi perseguissero la Danimarca e i suoi servizi di intelligence (Fe); gli interessi degli Usa appaiono più evidenti e risiedono nella necessità di controllare anche i propri alleati, perché non cedano a lusinghe esterne o a propri disegni di potenza. Perciò, che vengano “ricercati” esponenti tedeschi o francesi ci potrebbe stare, visti i desideri di predominanza che contraddistinguono i due Paesi all’interno dell’Ue e nei rapporti con potenze esterne, come Russia e Cina. Meno chiari gli interessi della Danimarca: porsi come alleato preferenziale di Washington? Magari differenziandosi da Svezia e Norvegia, anch’esse sottoposte a spionaggio?
Ancor più interessante è però stabilire chi era dietro la Fe: l’intero governo dell’epoca o una sua sola parte, oppure l’opposizione. La domanda è particolarmente importante, perché ministro degli Interni all’epoca era Margrethe Vestager, attuale vicepresidente della Commissione europea. La Vestager ha dichiarato che, come ministro degli Interni, non aveva nessun rapporto con i servizi di intelligence, ai quali sovrintendeva un comitato del Parlamento. Il che, se può salvare la vicepresidente, non chiarisce se l’operazione ebbe a suo tempo una copertura politica o se fosse opera autonoma dell’Fe. Entrambe le possibilità sono, diciamo così, problematiche.
Sulla questione è stata effettuata un’indagine ufficiale nel 2015, terminata con il rapporto denominato “Dunhammer”, che risulta però essere stato consegnato all’attuale ministro della Difesa, Trine Bramsen, solo nel 2020. In effetti, lo scorso agosto, furono sospesi dal servizio il capo della Fe e altri due alti funzionari, a seguito delle denunce di un’organizzazione danese di controllo, la Tet, attiva dal 2014. Come riportava all’epoca un quotidiano danese in lingua inglese, The Local Denmark, le denunce indicavano anche rapporti con la Nsa, sui quali pesavano dubbi di liceità. Anche allora la principale fonte di informazione era la Dr, la radiotelevisione pubblica danese, alla base dell’attuale indagine. Tuttavia, nel 2020 non vi fu nessuna reazione da parte del governo danese, né fu comunicato nulla alla Ue, nonostante il ruolo coperto da Margrethe Vestager.
Le attività di intercettazione sono state svolte non dalla normalmente vituperata Cia ma dall’Nsa, l’agenzia federale responsabile della sicurezza delle comunicazioni che, in questo caso, sembra essere passata da una attività di controspionaggio, cioè di difesa, a un’azione in attacco di spionaggio, per di più su alleati. Ed ecco la domanda finale: il presidente Obama e il suo vice Biden erano al corrente di queste operazioni? Ad ogni modo, non risultano interventi espliciti per porre rimedio, così come non risultano da parte di Trump l’anno scorso, quando il caso è tornato alla ribalta. Il che può suscitare il sospetto che Washington non fosse proprio all’oscuro dell’operazione e che il rischio di una denuncia fosse troppo alto anche per Trump, per di più probabilmente non contrario a interventi del genere.
Infine, ci si può chiedere se sia del tutto casuale l’uscita in questi giorni dell’inchiesta giornalistica, a poche ore dal tour europeo di Biden: dall’11 al 13 giugno in Gran Bretagna per la riunione del G7 (e visita alla Regina) e il 14 a Bruxelles per il vertice Nato. Soprattutto quest’ultimo sarà un incontro non facile, visto il periodo non tranquillo dell’Organizzazione, e dove saranno presenti tutti i Paesi coinvolti nello scandalo, tranne la Svezia, per il momento ancora neutrale.
Il giro europeo di Biden continua con l’incontro a Ginevra il 16 giugno con Putin, che non perderà l’occasione, di fronte alle continue accuse di intrusioni moscovite nelle elezioni americane, per rinfacciargli, in un qualche modo, “da che pulpito viene la predica”.
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