L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha spazzato via ogni flebile speranza di stabilizzazione, per quanto relativa, in Medio Oriente. La ferocia dimostrata dai miliziani non ha portato a una drastica condanna da parte del resto del mondo arabo, anzi, per molti versi quella di Hamas sembra essere considerata come una jihad collettiva non condannabile per molti musulmani. La dura reazione di Israele, con migliaia di vittime civili a Gaza, sta provocando reazioni negative anche nei governi amici, cominciando da Washington. Reazioni aggravate dalla posizione dell’attuale governo israeliano tesa a cancellare ogni ipotesi di Stato sovrano palestinese, con addirittura la proposta di trasferire in Africa la popolazione di Gaza.



Israele è stato portato dal Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia con l’accusa di genocidio. Un’accusa che appare francamente eccessiva, pur davanti all’enorme numero di morti causati dalla reazione israeliana: più di 20mila contro i 1200 della esecrabile azione di Hamas. Ci si può chiedere perché proprio il Sudafrica sia ricorso alla Corte, ma, come spiega Al Jazeera, già durante la lotta contro l’apartheid si era creata una reciproca solidarietà tra l’African National Congress di Nelson Mandela e l’OLP di Yasser Arafat. Da allora in Sudafrica la causa palestinese ha avuto un forte sostegno politico e di popolo.



La irrisolta questione palestinese è alla base anche delle numerose prese di posizione contro Israele in Occidente e sarebbe erroneo ridurle solo a condannabili manifestazioni di antisemitismo, benché purtroppo ancora presente, accanto a un irragionevole supporto ad Hamas. La questione palestinese rimane al centro, pur se forse più sentita in Occidente che in molti Stati arabi, ma la violenza della guerra nella Striscia sta allontanando da Israele anche Stati non nemici come Giordania ed Egitto. La Giordania, dove più della metà della popolazione è di origine palestinese, ospita già quasi due milioni di rifugiati palestinesi. L’Egitto avrebbe gravi difficoltà ad accogliere due milioni di profughi da Gaza nel Sinai, come prospettato da Tel Aviv. Nel Sinai sono presenti diverse fazioni islamiche in lotta con Il Cairo e potrebbe realizzarsi una nefasta alleanza con i miliziani di Hamas. Costoro, infatti, potrebbero facilmente mescolarsi tra i profughi per continuare la lotta contro Israele e contro i regimi che vengono considerati nemici. Hamas è collegata alla Fratellanza Musulmana, cacciata dai militari quando sono arrivati al potere in Egitto.



A tutto ciò si aggiunge la crisi interna di Israele, dove sta montando l’opposizione al governo, con la richiesta da parte dei parenti degli ostaggi in mano ad Hamas di un cessate il fuoco per avviare trattative per la loro liberazione. Tuttavia, è difficile cambiare un governo durante una guerra e, dall’altra parte, Netanyahu può rimanere in sella solo con una sconfitta totale di Hamas, per quanto difficile. Costi quel che costi.

Gaza sta portando in primo piano tutti i problemi non risolti della regione e gli scontri si stanno estendendo allo sconquassato Libano, con l’intervento in favore di Hamas degli Hezbollah, per il momento sporadico, e le inevitabili pesanti reazioni israeliane. La divisa Siria e l’instabile Iraq rischiano di ridiventare campi di battaglia, terreno di confronto tra Turchia, Russia, Stati Uniti e Iran. Quest’ultimo sta usando formazioni armate sciite per attaccare postazioni americane nei due Paesi e gli Stati Uniti reagiscono con raid aerei. Un intervento diretto contro l’Iran non è più da escludere categoricamente. All’inizio di gennaio un attentato, poi rivendicato dall’Isis, ha ucciso un centinaio di persone a Kerman, presso il cimitero dove è sepolto il generale Soleimani, comandante dei pasdaran iraniani, ucciso da un drone statunitense nel 2020. Da parte sua, la Turchia ha ripreso ad attaccare i curdi sia in Siria che in Iraq.

Infine, gli Houthi, attualmente in prima pagina per i loro attacchi alla navigazione nel Mar Rosso, un’ulteriore crisi che coinvolge direttamente l’Italia, sia economicamente per l’aumento dei costi di trasporto, sia militarmente. La nostra Marina, infatti, partecipa insieme a Francia e Germania alla missione europea per proteggere il traffico mercantile dagli attacchi degli houthi. Oggettivamente questi attacchi sembrano essere non molto rilevanti per Israele, ma utili a Teheran per riaffermare il proprio ruolo nella regione. Si conferma così la dolorosa vicenda yemenita, definita dall’Onu la maggiore catastrofe umanitaria degli ultimi decenni, che sembrava invece avviarsi verso una soluzione. In difficoltà anche l’Arabia Saudita, che sta cercando di rendere più stabile la situazione nello Yemen proprio con trattative con gli houthi, mediate dall’Oman.

Il maggior pericolo che questa complicata situazione precipiti viene però ancora dalla Palestina, precisamente dalla Cisgiordania. Qui le politiche del governo israeliano con il rifiuto di consegnare all’ANP le entrate fiscali che spettano all’Autorità nazionale palestinese e il divieto di spostamento per 150mila palestinesi che lavorano in Israele stanno esasperando gli animi. L’esplosione di una protesta popolare in Cisgiordania avrebbe conseguenze incalcolabili e porterebbe, volenti o nolenti, tutti gli Stati arabi a schierarsi in appoggio ai palestinesi e contro Israele.

La mancata soluzione della “questione palestinese” porta alla riproposizione della “questione israeliana”, portando tutto il mondo, non solo il Medio Oriente, sull’orlo del burrone.

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