L’Italia è sotto l’ombrellone mentre il governo Draghi continua silenziosamente a decretare, tracciando la strada irreversibile per chiunque prenderà il suo posto (o forse perché convinto della sua salvifica continuazione/ritorno). Delle passioni estive italiane il resto del mondo non si cura, sia perché il Paese è oggettivamente irrilevante nello scacchiere strategico mondiale, sia perché nessuno dei leader politici avrà la possibilità di deviare dal solco draghiano (Pnrr) rinforzato dal Tpi della Bce. Ma il resto del mondo pensa e fa cose che avranno un impatto decisivo sui nuovi equilibri globali, e quindi anche sull’Italia e sugli italiani. Quindi, noi ci occupiamo – con buone ragioni – di cosa fanno gli altri e di cosa non facciamo noi italiani.
Iniziamo dal vicinato più prossimo. La Turchia – dove la propaganda draghiana voleva un’Italia assertiva e partner di un immaginario ammansito Erdogan – consolida il suo arsenale imperiale nel Mediterraneo (Tunisia, Egitto e Libia in testa – fornitori sia di energia che di migranti – ma anche in Siria e nel Sahel) in una stretta correlazione con la Russia esplicitatasi nelle recenti quattro ore di riunione Putin-Erdogan a Sochi: “sempre più vicini” con “intesa commerciale e sull’energia” (dei dettagli e degli altri temi discussi non è dato sapere). Ai rappresentanti del “mondo libero” e dell’“ordine” liberal-democratico non resta che abbaiare alla luna, come fa il Financial Times che stizzito lancia anatemi e scomuniche.
Piaccia o meno, il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi: il vecchio ordine neoliberale universale (l’Occidente) declina inesorabilmente mentre se ne sta costruendo un altro neocommerciale (il resto del mondo). A questo si aggiungono le nuove tensioni caucasiche di confine tra azeri e armeni che nascondono interessi contrapposti russi e turchi – solo l’Unione Europea le interpreta come esempio dell’isolamento di Mosca ormai incapace di mediare – che servono a rendere più difficili certi approvvigionamenti energetici diretti all’Ue. Insomma, un tassello di un ricatto più ampio.
I Balcani – una volta chiave della strategia estera dell’Italia – sono e restano un buco nero con forte instabilità vagamente addolcita dall’ipotesi di adesione all’Ue. Inoltre, l’immancabile Zelenskyland, cioè ciò che resta dell’Ucraina dopo le purghe volute dall’attore-presidente qualche settimana fa, è oggi molto più debole, nonostante gli enormi aiuti finanziari e militari americani (gli aiuti militari e finanziari europei sono nei fatti irrilevanti sul piano strategico). Le agenzie di rating hanno affibbiato all’Ucraina CCC (pre-default) e i report militari la descrivono come perdente. Non è casuale che un articolo tecnico su questioni militari evidenzi che l’arsenale americano scarseggia significativamente a causa di “strutturali lentezze produttive” (procurement e supply chain), così riducendo le possibilità degli Usa di esporsi ad un confronto diretto convenzionale con la Russia (via Ucraina) o con la Cina (via Taiwan), e ancor di meno con entrambe.
Infine, Israele, nonostante la sua pesantissima crisi politica – che non ha nulla da invidiare a quella italiana – ha lanciato una pesante offensiva militare contro i palestinesi di Gaza in chiave antiterroristica. Dopo il drone americano a Kabul anche Israele vuole far sapere di essere capace di far qualcosa. Aspettiamoci reazioni di Hamas, e forse anche di Hezbollah dal Libano. Il Libano è un altro buco nero davanti alle nostre coste meridionali.
Dal punto di vista italiano, credere di poter contare su soluzioni prodotte dalla Ue e dalla Nato equivale ormai a credere alla befana. Sarebbe ora che i nostri leader prendessero seriamente a cuore queste questioni delineando una minima linea di politica estera e di strategia militare a difesa del nostro, quello italiano, interesse nazionale. Sbaglierò, ma nell’orizzonte italiano vedo il deserto con inutili omuncoli che si azzuffano sul nulla. E svengo leggendo di prospettive dell’eventuale destra di governo che riproporrebbe il già catastrofico Giulio Terzi di Sant’Agata a ministro degli Esteri.
Nell’ambito del vicinato prossimo, veniamo ora all’Unione Europea, madre tutelare di qualsiasi governo italiano. L’Ue è “affari interni” bizzarramente trattati da “esteri” dalla nostra stampa e dal dibattito nazionale. La pessima gestione von der Leyen-Borrell-Metsola non ha bisogno di molti commenti, ma di pietà implorando la misericordia. Dopo il loro periodo di “meritate” vacanze estive (le istituzioni europee chiudono per 20 giorni ad agosto, come le fabbriche metalmeccaniche) la ripresa dei lavori dovrà affrontare: a) un estremo rincaro energetico con imponente scarsità di forniture, soprattutto gas e forse anche elettricità, nella ormai conclamata inesistenza di un piano comune sull’energia; b) i costi crescenti della guerra in Ucraina (finanziari e militari) che assorbiranno risorse da altri capitoli di spesa; c) la crisi della leadership americana in vista dell’annunciata sconfitta di Biden e dei dem a novembre; d) il Regno Unito con una nuova leadership che (se eletta a settembre Liz Truss) sarà imprevedibilmente aggressiva; e) il resto del mondo, dietro a Cina, Russia e India, che alzerà barricate contro l’Ue; f) una crescente protesta sociale scatenata dalle difficoltà economiche, energetiche e di sopravvivenza che compatterà il risentimento di imprenditori e popolo contro i governi.
Non sapendo cosa fare, l’istituzione democratica dell’Ue – il parlamento europeo – ha pensato bene di proporre Zelensky per il premio Nobel per la pace. Persino la von der Leyen ha capito che era un po’ troppo ed ha tentato di stemperare la portata della raccomandazione dell’europarlamento. Il Recovery Fund – fiore all’occhiello di Draghi e della von der Leyen – vive momenti difficili a causa dell’incapacità delle amministrazioni sub-nazionali dei grandi Paesi di spendere i “soldi in prestito” secondo le regole europee (la capacità progettuale delle amministrazioni è generalmente bassa e inconcludente). Esperienza di condivisione del debito poco esaltante e difficilmente ripetibile in altri ambiti, anzi con il rischio che l’attuale esercizio sia sospeso a fine anno per “cause di forza maggiore”.
Il tanto sbandierato “Green deal”, cioè la transizione verde, arranca dietro una sequela di nuovi calcoli che ne dimostrano la poca sostenibilità economica e sociale, almeno nei programmati tempi rapidi, entro il 2035. Con buona pace di Greta e dei suoi sponsor di Davos, al posto della transizione verde ormai si parla esplicitamente di “adattamento alla nuova realtà energetica e sociale”. Un pesante fiasco politico, che infatti va a petrolio, carbone e nucleare ridipinti verdi dalla Commissione europea. Il piano italiano di lavorare nel triangolo con i vecchi grandi fondatori – Francia e Germania – con l’aggiunta della Spagna, per riorientare l’Ue, sta fallendo. La Francia è congelata dopo la pesante sconfitta elettorale di Macron. La Germania è attraversata da problemi che non si vedevano dagli anni 30 e dal ’91, oltre ad avere una crisi economica e sociale di preoccupanti proporzioni che porterebbe alla “migrazione” estera di molte imprese. E la Spagna pensa a sé stessa, forte di essere l’unico Paese europeo con molti rigassificatori (8) oltre ad un proprio rapporto transatlantico (sin dal 1898) nel quadro della dottrina Monroe. L’Ungheria di Orbán gioca da sola una partita russo-americana, flirtando con Putin e con l’incombente Trump. La Polonia con gli altri 12 membri dei “Tre mari” (tra cui Lituania e Romania, ma anche Slovacchia e Ucraina) gioca la partita sognata nella storia, cioè essere americana in chiave antirussa e antieuropea (ovvero antitedesca) con il sostegno del Regno Unito. Insomma, una Polonia “perno dell’Anglosfera” in Europa più che membro dell’Ue e della Nato.
In questo desolante quadro – per il quale non si può escludere l’implosione del sistema attuale dell’Ue – l’Italia è inesistente, senza visione né strategia. Sic transit Di Maio! I richiami europeisti (retorici) dei leader politici – anche quelli di Mattarella e Draghi – sono davvero incomprensibili e scollegati dalla realtà. Almeno potrebbero dire “Europa sì ma non così”, avanzando proposte concrete e realizzabili tenendo a mente l’interesse nazionale italiano. Anche su questo fronte, spero di sbagliare, vedo il deserto italiano. Forse ciò avviene perché l’interesse nazionale italiano è evaporato negli ultimi trent’anni – dopo le istruzioni che furono ricevute sul famoso panfilo Britannia nel ’92 – e si sta confermando con la recente “fuga” fiscale di Exor/Elkann in Olanda e le svendite di Ita e Mps che Draghi sembra intenzionato a portare a termine prima del 25 settembre, mentre da destra c’è chi vagheggia una “flat tax” al 23%, cioè un Robin Hood al contrario.
(1 – continua)
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