L’Asia centrale, oggi composta da cinque Stati indipendenti (Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan e Tagikistan), è la regione meno studiata al mondo, per molti anni regolarmente dimenticata e poi riscoperta.
Situata nel cuore dell’Eurasia, all’incrocio delle antiche Vie della Seta, collega la Cina al Mediterraneo, l’India alla Siberia. Popolata da circa 70 milioni di abitanti, confinante con Cina e India, comprendenti rispettivamente più di un miliardo di abitanti, è ancora oggi, a trent’anni dalla fine dell’Urss, una terra unica. Unicità che deriva dalla sua storia moderna, iniziata con il suo passaggio sotto il dominio coloniale russo nel XIX secolo e la successiva inclusione nel sistema sovietico, protrattasi per 70 anni. Le culture locali prevalentemente musulmane sunnite, con poche isole sciite e cristiane (ortodossi e protestanti, ebrei locali e ashkenaziti), sono state mantenute nonostante la forte russificazione e la secolarizzazione nel XX secolo, che hanno messo in discussione la loro identità all’indomani dell’indipendenza nel 1992.
In questo contesto geopolitico un ruolo rilevante spetta all’influenza turca, tanto che quattro delle cinque repubbliche dell’Asia centrale sono turche: il Kazakistan, la più grande; l’Uzbekistan, la più popolosa; il Kirghizistan, la più povera; il Turkmenistan, la più isolata politicamente. Solo la Repubblica tagika è di lingua iraniana, pur essendo prevalentemente sunnita con alcune comunità sciite ismailite nel Pamir. La Turchia ha infatti aiutato le cinque repubbliche dell’Asia centrale a ottenere il loro seggio all’Onu il 2 marzo 1992 e ha cercato di creare un’Unione delle repubbliche di lingua turca durante i primi anni, di cui aveva preso la guida, inviando molti attori economici e culturali a soppiantare il ruolo di “fratello maggiore” precedentemente assegnato alla Russia. Anche se questa strategia ha avuto successo solo in parte, la Turchia mantiene una forte influenza economica, educativa e religiosa.
Tuttavia non va dimenticato che i cinque paesi dell’Asia centrale sono tutti ex repubbliche dell’Unione Sovietica con forti legami con la Federazione Russa. Infatti i cinque paesi dell’Asia centrale hanno ancora comunità russe e di lingua russa (ucraini, bielorussi eccetera) che hanno rinunciato a emigrare in Russia. Si tratta di potenziali leve per la Federazione Russa, che ne ha tenuto conto nell’ultimo decennio, praticando una politica di forte influenza.
Inoltre la Russia mantiene stretti legami strategici con la maggior parte di questi paesi attraverso l’Organizzazione del Trattato di cooperazione eurasiatica (maggio 1992), ma anche con il Kirghizistan, dove ha una base militare (Manas), e il Tagikistan, dove è di stanza il 201° battaglione dell’esercito russo. Mosca è attenta nel visitare le sue controparti in Asia centrale almeno una volta all’anno, a discutere questioni comuni durante le riunioni dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, di cui fanno tutti parte, eccetto il Turkmenistan. La Russia ha assicurato il loro coinvolgimento economico e doganale attraverso la loro adesione alla Eaeu (EurAsian Economic Union) e da decenni accoglie milioni di lavoratori stagionali che, inviando valuta estera, contribuiscono al Pil delle rispettive repubbliche (soprattutto tagiki, kirghizi e uzbeki). Da gennaio 2020 la Federazione Russa ha rilanciato il concetto di una politica multilaterale con l’intera zona, senza dubbio per garantire una migliore strategia anti-terroristica e di sicurezza sanitaria, e per promuovere una politica di integrazione regionale tesa a resistere meglio alle crisi economiche e all’influenza cinese.
Ma l’Asia centrale è al centro delle rotte della Nuova Via della Seta. Condivide infatti un lungo confine a ovest della Cina: 1.400 km con il Kazakistan, 800 km con il Kirghizistan, 400 km con il Tagikistan. È l’anello mancante che lo collega all’Europa continentale e spera di raccogliere alcuni profitti dai grandi investimenti infrastrutturali pianificati dalla Repubblica popolare cinese. Tuttavia deve affrontare una profonda sinofobia che attraversa tutte le società dell’Asia centrale, che sono anche fortemente indebitate nei suoi confronti.
Fino al 2020, la Cina stava avanzando nella regione nel modo più “mascherato” possibile, pur mantenendo forti relazioni bilaterali con ciascuno dei cinque Stati. Dal 2015 ha istituito la zona economica di cooperazione speciale attraverso il porto di Khorgos, al confine con il Kazakistan, che ha utilizzato come hub per reindirizzare i suoi prodotti in Europa e Russia. Investe su tutto il territorio in immobili, infrastrutture stradali, ferrovie, concedendo mutui senza corrispettivo morale. Offre borse di studio agli studenti più meritevoli, moltiplica i suoi istituti Confucio e ha avuto un certo successo di fronte alla crescente sfiducia dell’Asia centrale nei confronti dell’Unione Europea, ampiamente ripresa dalla Federazione Russa.
Infine, al crocevia delle influenze russe e cinesi, l’Asia centrale è ancora una volta l’oggetto strategico di un nuovo “Grande gioco”, come quello che si oppose all’Impero Britannico e quello degli zar nel XIX secolo. Ma a differenza di quello di cui parlava Rudyard Kipling, il numero di partecipanti è molto maggiore. Non include solo grandi potenze come Cina, Stati Uniti, Russia e Ue nelle sue varie varianti di Stato, ma anche potenze medie come Turchia, Arabia Saudita, India, Emirati Arabi Uniti, Giappone. Anche gli Stati dell’Asia centrale sono coinvolti in questo “Grande gioco”, ma le loro scelte diversificate di politica estera dimostrano la loro preoccupazione affinché non si creino nuove monodipendenze e aumentino le loro possibilità di imporre i loro prodotti su nuove rotte, beneficiando di progetti infrastrutturali multilaterali e prestiti agevolati.
Un altro aspetto da sottolineare è il ruolo delle immense riserve naturali di petrolio, gas e minerali di questi paesi. Le cinque repubbliche dell’Asia centrale, anche se tre detengono immense riserve naturali – Kazakistan (petrolio, gas, uranio), Turkmenistan e Uzbekistan (gas), per le quali la posta in gioco è multipla – sono tuttavia fortemente dipendenti dagli investimenti stranieri per le numerose infrastrutture necessarie. Inoltre, lo sfruttamento del petrolio del Caspio richiede attrezzature costose e procedure complesse che favoriscono l’aumento della partecipazione straniera e quindi l’aumento della loro influenza. La competizione per le riserve naturali riguarda anche la direzione in cui vengono esportate: verso la Cina, che ne ha bisogno per sviluppare lo Xinjiang, o la Russia che le vende poi alla Ue.
Un elemento di preoccupante instabilità presente in Asia è certamente la presenza di movimenti islamisti. Pensiamo all’ascesa dei talebani in Uzbekistan: questo paese pratica una politica anti-radicalizzazione e anti-islamista piuttosto efficace, ma la possibilità da parte del movimento talebano di aggirarlo attraverso il Tagikistan, il Kirghizistan e persino il Turkmenistan (rotte osservate per il traffico di droga afghano verso la Russia) rimane una minaccia da non sottovalutare.
Inoltre, la regione nel suo insieme è soggetta a un’ondata conservatrice, persino fondamentalista, sotto forma di “salafizzazione della società”, che provoca dinamiche conflittuali rilevanti nel tessuto sociale, come per esempio la sfiducia nei confronti dello Stato e dei suoi funzionari.
In questo contesto, anche se l’Asia centrale non è un focolaio di attacchi terroristici, le disuguaglianze sociali e la crisi economica che seguirà alla pandemia Covid-19 la rendono fragile a qualsiasi minaccia di destabilizzazione.
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