Nel 1836, tre anni prima che l’Inghilterra iniziasse la prima Guerra dell’oppio contro la Cina (1839-1842) un autore, rimasto anonimo, pubblicava a Canton un saggio che suonava come un avvertimento minaccioso: “Non esiste, probabilmente, al giorno d’oggi criterio più infallibile per stabilire il grado di civiltà e di avanzamento di una società che quello dell’efficienza da essa raggiunta nella ‘tecnica omicida’, della perfezione e varietà degli strumenti sviluppati per la reciproca distruzione e della abilità con cui ha imparato a servirsene”.



Nel pieno della Rivoluzione industriale, che avviò la più grande espansione materiale della storia, gli occidentali per spiegare ai cinesi  la loro superiorità usavano come metro di giudizio l’efficienza bellica e la tecnologia militare. L’anonimo autore procedeva irridendo la marina cinese definendola una “mostruosa burla” e giustificava l’arretratezza della società cinese con l’inconsistenza dell’esercito cinese, definito antiquato e poco disciplinato.



A quasi due secoli di distanza dalla prima Guerra dell’oppio sono tante le cose ad essere cambiate. Il Mar Cinese meridionale è diventato, o forse sarebbe più corretto dire è tornato, ad essere il perno dell’economia mondiale, ma a sentire gli analisti asiatici non è cambiata l’attitudine dei paesi europei a giocare un ruolo da protagonisti in Asia esibendo la propria forza militare. Anche per questo motivo, l’arrivo nel Mare delle Filippine della portaerei Queen Elizabeth e del più grande gruppo navale che sia salpato dalle isole britanniche dai tempi della Guerra delle  Falkland,  per gli asiatici e per i cinesi in particolare ha  un  valore simbolico decisamente non banale.



Alcuni commentatori nostrani a riguardo hanno parlato di un’operazione di marketing che serve a rivitalizzare la strategia del Global Britain, che al momento sembra aver perso molto del suo appeal. Una considerazione che ha qualche fondamento di verità, ma che fa passare in secondo piano la valenza strategica di una missione navale che va ad unirsi a navi da guerra provenienti da Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Francia in esercitazioni militari a ridosso del Mar Cinese meridionale alle quali, a quanto pare, si aggiungeranno anche navi della marina militare indiana.

In particolare la Francia si è mostrata molto attiva nell’area già da maggio,  quando una fregata e una nave d’assalto hanno attraversato l’arcipelago conteso delle Isole Spratly, il quale gioca un ruolo decisamente importante per la strategia cinese. Inoltre,  un sottomarino a propulsione nucleare francese ha attraversato tutto il Mar Cinese meridionale e prossimamente aerei francesi condurranno esercitazioni in una vasta area che va dall’India all’Australia.

Benché la crescente assertività di Gran Bretagna e Francia sia anche il riflesso di una politica di potenza giocata in piena autonomia, deve essere inserita all’interno di una complessiva strategia di dissuasione e contenimento a guida americana. La presenza delle marine militari nel Mar Cinese meridionale serve nelle intenzioni degli americani a porre un argine alla crescente militarizzazione dell’area ad opera dell’esercito cinese e a ricordare a Pechino che le sue rivendicazioni violano la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.

Una strategia alla quale si è aggiunta timidamente anche la Germania, con tanti distinguo che servono – inutilmente, viste le recenti dichiarazioni di Pechino – a non irritare il proprio principale partner commerciale.

Se può risultare ingenuo caricare di eccessivo significato il valore delle recenti missioni dei paesi europei nel Mar Cinese, che di certo non cambieranno nel breve  le carte in tavolo,  è innegabile che stiamo vivendo i prodromi di una fase di sempre più acuta competizione che avrà nell’Indo-Pacifico il suo teatro principale. Nel suo recente volume Indo-Pacifc Empire Rory Medcalf descrive l’Indo-Pacifico come il perno geo-strategico del mondo contemporaneo e lo spazio geopolitico che la Cina deve dominare se vuole assurgere allo status di potenza egemone su scala globale. Un intreccio di rotte e autostrade marine – una definizione che fa riecheggiare il Mediterraneo raccontato da Braudel – che fa dell’area “più connessa al mondo” la più contesa in assoluto. Un’area così complessa ed eterogenea che  può essere governata solo da  una potenza in grado di garantire un equilibrio multipolare.

A quanto pare, però, la Cina di Xi sembra intenzionata a voler edificare uno spazio imperiale che subordinerebbe le  storiche  interconnessioni  fra le economie regionali dell’area ai propri interessi, andando a realizzare una strategia che non ha precedenti nella storia recente, ad eccezione di quello  infausto del Giappone imperialista. Invece, gli Stati Uniti e i suoi alleati sono intenzionati a  coinvolgere quanti più attori locali nel piano di contenimento cinese, ma dovranno scontrarsi  con l’incrollabile volontà cinese di non rivivere le umiliazioni patite dagli eserciti europei nel corso dell’Ottocento.

Saranno i prossimi mesi a dirci se in futuro assisteremo a una riedizione dell’età delle cannoniere caratterizzato dall’appoggio e dal consenso dei paesi dell’Indo-Pacifico o se anche questa volta la storia dopo la tragedia delle guerre dell’Ottocento ci proporrà la farsa del declino irreversibile delle potenze occidentali.

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