Per coloro che non avessero ancora conosciuto il nuovo stile assertivo della diplomazia cinese, quanto successo a cavallo tra Cina e Australia ne potrà fornire un’utile illustrazione. Ci riferiamo al tweet che il direttore del dipartimento per l’informazione del ministero degli Esteri di Pechino Zhao Lijian ha rilanciato nel web il 30 novembre scatenando un clamoroso incidente diplomatico con Canberra, con cui i rapporti non sono certo idilliaci.



Nel tweet Zhao non esitava a riproporre una vignetta raccapricciante del disegnatore satirico cinese Wuheqilin, che raffigura un soldato australiano con un bambino afgano in braccio e un coltello in mano come se fosse sul punto di sgozzarlo. Nel tweet l’illustrazione era accompagnata da un testo che evidenziava l’indignazione cinese per i crimini di guerra per i quali sono attualmente indagati, dopo lo scandalo scoppiato il mese scorso in Australia, 19 soldati già di stanza in Afghanistan: “siamo scioccati dall’uccisione di civili e prigionieri afgani da parte di soldati australiani. Condanniamo fermamente simili atti e chiediamo che i responsabili ne rendano conto alla giustizia”. Tanto è bastato perché, appena due ore dopo, il primo ministro australiano Scott Morrison proclamasse la propria indignazione per un tweet giudicato “davvero ripugnante, profondamente offensivo e oltraggioso” di cui esigeva la rimozione insieme alle scuse ufficiali di Pechino.



Benvenuti nella Wolf-warrior diplomacy, ossia nel nuovo stile di comunicazione aggressivo della diplomazia cinese nell’era di Twitter e di Xi Jinping. Una strategia che vede proprio in Zhao il suo alfiere e che si attua attraverso gli account di una nuova generazione di diplomatici agguerriti, che ribattono colpo su colpo agli attacchi occidentali su temi come i diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang. Una pattuglia che ha un’avanguardia ben attrezzata e organizzata nel ministero degli Esteri cinese i cui numerosi portavoce hanno acquistato in patria una fama da rockstar. Si tratta di una vera e propria rottura rispetto a una tradizione diplomatica plurisecolare che privilegiava la gestione delle controversie non conflittuale e dietro le quinte.



Terreno privilegiato di espressione della Wolf-warrior diplomacy è Twitter. Nonostante sia bandito in patria dal 2009, non c’è un diplomatico che non abbia un proprio profilo nel social dai 280 caratteri, piattaforma usata più che volentieri per aspre polemiche con i media e i colleghi occidentali. Il moltiplicarsi di questi account lascia emergere una chiara strategia da parte della Cina: esercitare maggiore influenza sui dibattiti on line relativi alla Cina stessa con la funzione da una parte di esaltare i successi del nuovo corso cinese di Xi Jinping e dall’altra di esercitare una funzione di fact checking rispetto ad accuse o report ostili. Non per niente lo slogan del Wolf-warrior rispecchia un antico motto della dinastia Han secondo cui “chiunque offende la Cina sarà punito non importa quanto lontano egli sia”.

Si spiega così la sortita del “guerriero” Zhao che frequenta le praterie di Twitter dal 2010 e si è reso protagonista di una lunga lista di episodi controversi: nel luglio 2019, ad esempio, aveva preso di mira l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Susan Rice parlando della “segregazione razziale che vige a Washington D.C.”; nel marzo di quest’anno, inoltre, mentre il coronavirus dilagava nel mondo, Zhao ricorreva a Twitter per accreditare una teoria cospirativa secondo cui sarebbero stati i soldati americani a diffonderlo in Cina. Lo stile baldanzoso di Zhao gli ha fatto guadagnare enorme popolarità in patria: ha infatti sul social cinese Weibo un milione di follower che lo chiamano orgogliosamente con il nickname Wolf-warrior Zhao. C’erano dunque tutte le premesse perché Zhao mettesse il dito sulla piaga dello scandalo australiano utilizzando quella vignetta per screditare un Paese con cui la Cina è da tempo ai ferri corti.

Naturalmente l’episodio non poteva essere ignorato non solo dall’Australia ma anche dai suoi partner occidentali, i quali tutti hanno espresso solidarietà a Canberra. La Francia ad esempio definiva “scioccante e offensiva” l’immagine, mentre dal campo trumpiano si mobilitava un portavoce del Dipartimento di Stato con un tweet nel quale accusava la Cina di pratiche di disinformazione e manipolazione. Persino il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca si premurava di intervenire con un altro tweet ironico nel quale prendeva di mira i dazi imposti dalla Cina sul vino australiano aggiungendo che quella sera stessa ne avrebbe stappato una bottiglia.

Per tutta risposta la Cina rispediva la mittente le accuse affidando ad un’altra “guerriera” una dichiarazione per nulla conciliante: la pronunciava durante un briefing la portavoce del mnistero degli Esteri Hua Chunying, la cui replica (“non è la Cina che dovrebbe vergognarsi, ma l’Australia”) ha spopolato su Weibo, con 30 milioni di visualizzazioni in 24 ore, a riprova del consenso di cui gode la Wolf-warrior diplomacy nella nuova opinione pubblica cinese.

Si sta formando infatti una nuova generazione di netizens, soprattutto giovanile (la cosiddetta pink generation), che scorge in figure come Zhao e Hua veri e propri idoli. Per la pink generation è musica nelle orecchie la lezione morale impartita all’Australia da Hua, che aggiungeva: “le accuse che ci sono state rivolte servono solo a due scopi, una è distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle orribili atrocità commesse dai soldati australiani; l’altra è far carico alla Cina del peggioramento dei rapporti bilaterali”. Ma la replica più piccata è stata quella dell’ambasciata cinese a Parigi che si è chiesta retoricamente: “dov’è la libertà di espressione di cui parlate tanto?”.

Valutate le proporzioni assunte dall’episodio, il premier australiano Scott Morrison già il giorno successivo cambiava approccio decidendo di appellarsi direttamente al popolo cinese diffondendo un messaggio sulla popolare piattaforma di messaggistica cinese Wechat. Pur reiterando la critica per l’immagine incriminata, Morrison rivendicava l’indagine condotta dal proprio governo sui presunti crimini di guerra commessi dai militari australiani in Afghanistan, auspicando una “felice coesistenza” tra i due popoli e chiudendo con un “apprezzamento per la comunità cinese in Australia”. Ma nonostante il messaggio fosse stato letto da 50mila utenti di Wechat, la piattaforma decideva di cancellarlo a 24 ore dalla sua pubblicazione, adducendo come motivazione che le parole di Morrison distorcevano gli eventi storici e confondevano il pubblico. A non essere rimosso dalla rete, nonostante le richieste di Canberra, è stato invece il tweet iniziale di Zhao su cui tuttavia, ad un certo punto, Twitter ha apposto un disclaimer per segnalarne i contenuti sensibili. In tal modo il tweet di Zhao poteva rimanere fieramente in cima alla timeline del suo profilo guadagnando ben 65mila like.

L’episodio che abbiamo qui proposto conferma come la politica odierna, interna ed estera, quando sostenuta e amplificata dall’uso dei social media, può generare polemiche e incomprensioni e persino incidenti internazionali. Quel che più sorprende è che non c’è solo Trump o qualche agguerrito neoconservatore a fare i guastatori ma che sia ora la Cina nell’occhio del ciclone dopo anni, se non secoli, in cui la sua diplomazia si era mossa in modo felpato e con parole soft.