Una credibile risposta realista alla domanda posta nel precedente articolo (perché siamo in una condizione di guerra estesa, continuata, e in certi casi intensificata?) è che le medie potenze approfittano dell’attuale fase di transizione egemonica – cioè, di indebolimento del dominio occidentale nel mondo – per guadagnare un posizionamento strategico (regionale) altrimenti impossibile al di fuori di una irripetibile finestra temporale con gli USA impegnati in una difficile tornata elettorale e l’Europa in fuorigioco istituzionale e politico. Ciò vale certamente per Paesi come Israele, Turchia e Iran. Parzialmente è vero anche per la Russia, che però è una grande potenza nucleare con oltre 6mila testate atomiche. La Cina è un caso a parte poiché è una piccola potenza nucleare (circa 200 ordigni) ma è una grande potenza politica e commerciale. Non è un caso, infatti, che la Cina abbia speso molto capitale diplomatico per stabilizzare il Medio Oriente, dall’accordo tra Arabia Saudita e Iran alla convocazione di tutte le parti palestinesi a Pechino, e che continui a sostenere opportunisticamente, come anche l’Europa, la soluzione due popoli due Stati.



Al di là delle ragioni di politica interna di Israele e di quelle dei Paesi arabi inclusa la Palestina, dell’Iran, della Turchia, è piuttosto evidente che sia il 7 ottobre terroristico palestinese del 2023 sia le successive azioni di vendetta distruttiva di Israele hanno l’obiettivo strategico di voler rovesciare il tavolo degli equilibri (instabili) del Medio Oriente stabiliti nel 1916 (Sykes Picot),  poi nel 1945 (Roosevelt-Saud), poi imposti dagli USA in modo insensato e stravagante dopo l’11 settembre 2001, e infine accennati nel 2019-2020 dal “piano per la prosperità” dell’amministrazione Trump. In questo contesto si muove anche l’Iran, che tradizionalmente ha sempre avuto buoni rapporti col mondo ebraico ma ha considerato qualitativamente inferiore il mondo arabo.



Tutti gli attori coinvolti sembrano aspettare il ritorno di Trump alla Casa Bianca, ciascuno volendo arrivare all’appuntamento con un risultato da far valere e mostrare. Non è un caso, infatti, che Iran e Israele usino il residuo potere dell’amministrazione Biden per comunicare con le parti avverse: negoziati condotti da Blinken più che inconcludenti; comunicazione diretta con gli USA prima di attacchi di guerra internazionale (Iran-Israele, ma anche Russia-Ucraina). Più che per qualche utilità di ritorno, questo avviene piuttosto per affermare la propria forza nel sistema e negli apparati statunitensi…aspettando Trump. Sul piano tattico, Israele pensa di potersi “avanzare” con conquiste territoriali che creino uno stato di fatto irreversibile. In modo simile, anche Russia e Ucraina svolgono una guerra tattica di modeste conquiste territoriali.



Una lettura strategica di questi conflitti fa emergere un’altra visione e obiettivi che poco hanno a che fare con i territori afferenti a ciascuna potenza (Russia, Israele) o con le legittime rivendicazioni identitarie che sono di tipo nazionalistico piuttosto che nazionale.

Il quadro strategico in cui tutto ciò avviene è la transizione egemonica mondiale che si è avviata dal 1989 e che inconsapevolmente l’hubris americano del mondo piatto e della globalizzazione clintoniana ha accelerato. L’egemonia dell’Occidente (americano) si è fondata sull’incontrastata potenza talassocratica statunitense (il mondo diviso in 7 zone militari e navali) il cui perno è stato l’Atlantico e il “medio oceano” (Mediterraneo) collegato via canale di Suez con l’Indo-pacifico. Le potenze regionali in competizione tra loro (Russia, Turchia, Iran, Stati arabi della penisola arabica, e Israele) hanno sviluppato conflitti all’interno del quadro egemonico occidentale per guadagnare spazi di influenza nelle lucrose attività energetiche e commerciali. Negli ultimi decenni, le modificazioni naturali (e non solo) del clima hanno permesso di spostare l’asse di interesse globale dal passaggio a Nord-Ovest a quello a Nord-Est, cioè dall’Atlantico all’Artico. Questa è la vera transizione egemonica che dà pregnanza e significato strategico “all’amicizia senza fine” sino-russa (imperniata su Vladivostok), ma allo stesso tempo marginalizza relativamente l’Atlantico e il “medio oceano”. Al vecchio asse dei flussi New York-Londra-Gibilterra-Suez-Indopacifico si sta concretamente aprendo la realizzabilità dell’asse Vladivostok-Rotterdam-Vancouver. Si tratta di uno stravolgimento strategico con enormi conseguenze per l’ormai declinante Occidente euroamericano, ben rappresentato dalla profonda crisi europea di Regno Unito e Germania, con la simultanea ascesa dell’Olanda (che non casualmente è alla guida della NATO). Le forniture energetiche americane all’Europa (e non solo), non a caso, hanno sostituito quelle tradizionali dal Medio Oriente e dalla Russia.

È in questo quadro che il posizionamento strategico di Paesi come Ucraina, Israele e Iran, ma anche di Arabia Saudita ed Emirati, cambia drasticamente. Israele e Iran, Arabia Saudita ed Emirati guardano ormai con crescente interesse ai loro rapporti con India, Cina e anche Russia. Un riposizionamento nel quale ciascuno tenta di stabilire una qualche egemonia regionale da far valere. Perciò è un momento estremamente violento e pericoloso. Per l’Ucraina, già di interesse cinese come terminale di una delle vie della seta, si presenta il drammatico dilemma: fidarsi degli occidentali o cercare di trovare un modus vivendi con il vicino russo con garanzie cinesi?

(2 – fine)

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