Mancano meno di cento giorni all’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti e l’attesa per il duello tra Kamala Harris e Donald Trump ha cambiato lo scenario non solo americano, ma di ciò che riserverà l’ordine mondiale, ormai andato in crisi da oltre quindici anni, quando il mito dell’esportazione della democrazia neo-mercatista ha creato una globalizzazione che oggi si trova in una crisi profonda ed è rimessa in discussione per difendere delle identità che possono anche essere anacronistiche, ma che corrispondono a motivi sociali, religiosi, disuguaglianze economiche e culture contrastanti.



Tra errori e analisi superficiali, non ci si è resi conto che il crollo del muro di Berlino era una svolta epocale che cambiava l’aspetto del mondo. E in più avveniva in un periodo di trasformazione tecnologica che mutava i rapporti economici e sociali, la stessa organizzazione del lavoro e di conseguenza le stesse classi sociali.



La “Guerra grande” che sta sconvolgendo sopratutto l’Europa, l’atlantismo e il Medio Oriente è gran parte il frutto degli errori che dalla caduta del Muro di Berlino si sono susseguiti con implacabile e miope continuità.

Sembra un’ironia del destino. Henry Kissinger, un realista spesso cinico, si era laureato da giovane su Klemens von Metternich, il gran regista del Congresso di Vienna nel 1815, che dopo il periodo napoleonico aveva assicurato un periodo di quasi tranquillità all’Europa. Kissinger aveva sistemato i rapporti con la Cina di Mao, ma dopo il crollo del Muro la sua voce è mancata. Sono passati anni dal 1991, quando la Russia si è suicidata, lasciando spazio agli oligarchi e vedendo la nascita di quindici repubbliche indipendenti, restando quindi un ex impero, una ex potenza  “ammaccata”. Ma nessuno si è preso veramente la briga, a Est o a Ovest, di ristabilire un’ordine funzionale, rielaborando le colpe in modo oggettivo e credibile e seguendo con il tempismo giusto i tempi storici. E così, prima con l’invasione della Crimea e poi con la follia del 24 febbraio 2022, è esplosa la grande crisi.



Facendo il bilancio di due anni di guerra si può dire che due Paesi, sia la Russia che l’Ucraina, hanno perduto. Non c’è ancora un vincitore, nonostante gli aiuti dell’Occidente all’Ucraina e la tecnologia più avanzata ma ormai obsoleta della vecchia URSS rispetto agi aiuti occidentali che sostengono l’Ucraina.

La tragedia che ha investito l’Ucraina ha messo in moto una crisi dell’Europa: sia per la sua compattezza traballante, sia per la sua totale incapacità di mediazione politica in un dramma di tale portata. Con il rischio del possibile inizio di una terza guerra mondiale nel centro dell’Europa.

A questo punto la parola-tabù – negoziato – riaffiora sulle labbra dei protagonisti e di chi lo sostiene o finge di farlo. Certo, c’è ancora a Mosca e a Kiev chi crede o finge di credere alla vittoria totale, ammesso che l’aggettivo abbia senso. Ma realisticamente ormai ha senso per tutti che si arrivi alla cosiddetta tregua, che non si debba più leggere quotidianamente un bollettino di incursioni, risposte, piogge di missili, ritorsioni e bombardamenti crudeli.

È evidente che restano da risolvere una serie di problemi di carattere internazionale e nel caso dell’Ucraina anche nazionale, perché si deve ricostruire il Paese. Ma realisticamente in questo momento l’unica soluzione possibile è una tregua infinita, cioè quella che venne definita negli anni Cinquanta come tregua coreana.

Troppo poco? In un disordine mondiale come questo, una tregua coreana potrebbe indurre le grandi potenze, sia in Medio Oriente, sia nell’Indo-Pacifico, a ripensare al momento di grande cambiamento che stiamo passando e a una soluzione possibile da trovare.

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