Nell’ormai lontano 2013, il 7 e 8 novembre presso il Fondo Monetario Internazionale si tenne la quattordicesima Jacques Polak Annual Research Conference a cui parteciparono economisti del calibro di Ben Bernanke, Kenneth Rogoff, Lawrence Summers e Olivier Blanchard. La tavola rotonda che si ebbe a conclusione della conferenza è ancora ricordata per l’intervento di Lawrence Summers, che rappresentò un vero e proprio terremoto per il dibattito scientifico dell’epoca.
L’ex Segretario del Tesoro, che in quel momento ricopriva la carica di Director of the White House National Economic Council dell’amministrazione Obama, evocò per descrivere lo stato dell’economia Usa del post-crisi del 2007/2008 la stagnazione secolare, una categoria che rappresentava per gli economisti lo scenario peggiore da affrontare e che fu utilizzata per la prima volta negli anni Trenta del Novecento da Alvin Hansen per descrivere uno scenario – molto differente da quello in cui ci troviamo in questo momento – in cui tassi d’interesse reali negativi e inflazione bassa coesistevano con un’attività economica molto lontana dal raggiungimento del proprio potenziale.
L’inflazione galoppante, i mercati con performance pessime, le previsioni negative sul Pil e il costo alle stelle delle materie prime contribuiscono a rendere il contesto attuale decisamente dissimile da quello descritto da Summers, ma alcuni problemi rimangono sul tavolo.
Secondo l’ex Segretario del Tesoro, le fondamenta macroeconomiche sono state radicalmente cambiate dalla crisi del 2007/2008 e dalle politiche intraprese per contrastarla, poiché esse hanno tracciato un solco fra politiche monetarie, sempre più accomodanti, e i problemi sottostanti dell’economia reale. Il fascino esercitato dalla teoria di Hansen su Summers si spiegava con l’enfasi che veniva posta sul problema che rappresentava il sostegno agli investimenti privati e sui limiti delle politiche monetarie.
Summers si rispecchiava nel pessimismo di Hansen soprattutto su una questione che è ancora attuale. L’economista degli anni Trenta riteneva che nessuna ondata di innovazioni era in grado di alimentare la domanda di investimenti che poteva fare da volàno per una nuova fase di sviluppo. Egli, in questo modo, misurava i problemi delle politiche di stampo keynesiano per raggiungere una condizione di piena occupazione. Fu necessario aspettare il 1939 per avere gli enormi investimenti che servirono per uscire definitivamente dalla crisi del 1929, quando cioè l’industria bellica americana iniziò a sostenere i propri alleati in Europa, mentre solo nel 1941 dopo l’attacco di Pearl Harbor si innescò quel processo che portò di fatto l’economia americana alla piena occupazione.
In tempi di una nuova guerra in Europa, il pessimismo di Hansen torna in nuove forme determinate dal tema dell’innovazione e della distruzione creatrice. In una recente intervista Elon Musk, ancora una volta, ha sorpreso i propri interlocutori dicendo che la recessione che interesserà l’economia mondiale è una buona notizia, poiché la pioggia di denaro che ha accompagnato la pandemia ha salvato imprese destinate al fallimento e ha impigrito i lavoratori. Per usare le parole dell’imprenditore americano l’inflazione è colpa della Fed, che ha riversato sull’economia un miliardo di dollari in più rispetto alle sue reali possibilità, producendo “una pioggia di denaro sugli sciocchi per troppo tempo”, mentre la prossima, inevitabile, recessione produrrà tempi difficili per uomini forti, che a loro volta produrranno una nuova fase di sviluppo.
Detto con il linguaggio di Schumpeter, la distruzione creatrice che accompagnerà il prossimo ciclo di innovazioni separerà inevitabilmente il vecchio mondo dal nuovo.
La guerra in Ucraina, che ha sancito il trionfo della costellazione satellitare Starlink di Musk, rappresenta la conferma fattuale di questa prospettiva, ma il conto che porterà con sé la recessione potrà essere insostenibile, per il semplice motivo che non sappiamo quanto essa durerà. Esattamente come il mondo descritto da Hansen, anche il nostro si trova in una fase di transizione verso nuovi equilibri geopolitici e modi di produzione.
Negli anni Trenta nuove tecnologie si stavano affermando e il paradigma produttivo dell’epoca – quello fordista – iniziava ad affermarsi su scala globale. Un lungo percorso iniziato nel 1908, quando fu prodotta la prima Ford T, che si affermò su scala globale solo nel secondo dopoguerra.
Anche in questa fase, ed esattamente come negli anni Trenta, un nuovo modo di produzione basato su nuove tecnologie e paradigmi energetici sta lottando per affermarsi, ma converrebbe ricordare a Musk a quale prezzo ciò avvenne un secolo fa. Ci vollero due guerre mondiali, la pandemia dell’influenza spagnola, la rivoluzione russa, il nazifascismo e la crisi irreversibile di tutte le istituzioni finanziarie ed economiche affinché il nuovo paradigma fordista-keynesiano, assicurato dall’egemonia americana, si affermasse definitivamente.
A fronte di questo motivo è facile capire le preoccupazioni di molti economisti neo-schumpeteriani, che sostengono l’importanza della politica e delle istituzioni nel “guidare” i processi che accompagnano la distruzione creatrice, addomesticandone gli aspetti contraddittori e indirizzando i processi innovativi verso la risoluzione di problemi come le diseguaglianze e la questione ecologica. Una prospettiva che, se ha il merito di definire l’innovazione come un processo sociale, finisce per sottovalutare la natura profondamente darwiniana di una crisi di sistema nella quale si produce una biforcazione fra il vecchio e il nuovo.
Detto altrimenti, il tentativo di salvare il capitalismo dai capitalisti che aveva animato le intenzioni prima di Keynes e più recentemente di Rajan e Zingales potrebbe scontrarsi contro l’evidenza che i nuovi uomini come Musk hanno innescato processi irreversibili fuori dalla portata di qualsiasi istituzione e governo.
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