La crisi mediorientale? “Dipende tutto dall’eventuale impazzimento dell’Iran. Se dovesse chiudere lo stretto di Hormuz, bloccando di fatto il transito di parte del greggio saudita, allora potrebbe generare delle criticità. Non a caso, però, gli Usa hanno inviato – a tempo di record – le loro portaerei nell’area”. Il futuro della Cina? “Può sembrare paradossale, parlando di un Paese comunista, ma la Cina cambierà quando si creeranno maggiori condizioni per investimenti. E, soprattutto, si doterà di uno Stato sociale che ponga fine all’enorme freno strutturale che lega ancora Pechino al mito dell’esportazione: l’eccesso di risparmio dei suoi cittadini. Se la scuola dei tuoi figli costa, se mamma e papà vanno assistiti e se la sanità non è universalistica, chiaramente si innesca un principio di risparmio precauzionale che si tramuta in zavorra”.
La Banca centrale giapponese rappresenta davvero la variabile potenzialmente impazzita del mercato? “Sfatiamo un altro mito. I giapponesi hanno ritenuto giusto che la Banca centrale comprasse debito per uscire dal grande crack degli anni Novanta. Insomma, spesa pubblica fino a quando i debiti del settore privato non fossero rientrati. Ma il 90-95% del debito giapponese è in mano ai giapponesi, Tokyo non ha un problema di detenzione estera che scarica quella carta. Altra cosa è la questione del debito Usa detenuta da Tokyo. Sa a cosa serve? Nulla più che deterrente politico, affinché Washington non diventi troppo amica della Cina. E per Pechino vale la stessa ratio”.
Moody’s declasserà il debito italiano a speculativo il prossimo 17 novembre? “No. Se lei va a una scuola privata, penso si aspetti un atteggiamento più comprensivo che in una scuola pubblica. Perché paga. Bene, chi controlla le società di rating, al tempo stesso detiene assets. A nessuno, oggi, conviene uno scossone sui Btp. Francia in testa“. La finanza controlla davvero il mondo? “Ho lavorato oltre 30 anni nella finanza e tutto questo potere non l’ho mai visto. Sa chi lo detiene? Solo la politica”.
Parole e musica di Giorgio Arfaras, classe 1954, economista, studioso, analista, gestore e non ultimo scrittore. Perché l’attuale membro del comitato scientifico del Centro Einaudi di Torino, fra gli altri volumi di sua produzione, nel 2007 diede alle stampe con Guerini e Associati un libro che andrebbe reso obbligatorio in tutte le facoltà di indirizzo economico, Il grand’ammiraglio Zheng He e l’economia globale. Di fatto, l’unico testo indispensabile per capire cos’era, cos’è e cosa sarà la Cina.
E proprio dal grande player della nuova era comincia la conversazione con Giorgio Arfaras, tutt’altro che sconvolto dagli stravolgimenti in atto. Forse perché, a differenza di chi aspetta che il sasso finisca nello stagno, tende a concentrarsi su cosa accade sotto il pelo dell’acqua. Prima che i cerchi si arridino. Quindi, impossibile non chiedergli un giudizio sul tema cardine degli ultimi mesi: l’inflazione. Prima negata, poi ridimensionata, dopo esplosa e ora, infine, apparentemente in ritirata.
Cosa sta accadendo? E, soprattutto, da dove è nato tutto?
Quella della bassa inflazione è un’anomalia che dura da circa 40 anni, diciamo l’arco temporale 1980-2020. E questo fenomeno ha avuto come motore principale proprio l’ingresso della Cina nel consesso dell’economia internazionale. Anzi, più precisamente, l’ingresso dell’urbanizzazione cinese. Mezzo miliardo di persone che si sono spostate da aree rurali alla città per lavorare. Poi i baby boomers e infine quello dell’ingresso dei Paesi dell’Est dopo la caduta del Muro. Mettendo insieme tutti questi fattori, ecco che si genera uno shock di offerta di lavoro tale da sostanziarsi in assenza di pressione sulla struttura dei costi. Dopodiché, un decennio abbondante di tassi di interesse a zero da Qe ha fatto lievitare quel processo rimasto latente per anni e anni. Infine, pandemia e guerra in Ucraina hanno accelerato il trend.
Cosa attendersi quindi dal futuro, dobbiamo davvero assumere il principio di inflazione più alta più a lungo?
Se risulterà vera la mia analisi, il punto di caduta è quello di un’inflazione che – diciamo così – si “sdrai” fra il 2% e il 3%. A quel punto, venute a mancare le tensioni sui prezzi, intesi senza le componenti volatili, le Banche centrali potrebbero cominciare a far scendere di nuovo i tassi di interesse verso lo zero in termini reali. Paradossalmente, persino di nuovo verso lo 0. Il problema eventualmente starà nel premio di rischio che i Paesi dovranno pagare sul debito, il quale – con un nuovo setting monetario come quello descritto -, risulterà in alcuni casi molto più alto. Non fosse altro perché, nel frattempo, l’indebitamento sovrano è cresciuto enormemente. Come quello privato, d’altronde. Non a caso, in un contesto che ad esempio vede la Borsa americana acquistata unicamente da se stessa: è tutto basato sul buyback azionario, nessuno in realtà compra a Wall Street se non le stesse quotate via riacquisto di propri titoli. Perché la realtà è questa, basta leggere i dati.
Insomma, una sorta di manipolazione legale. A tal proposito, come valuta la decisione della Bank of Japan di ammorbidire la sua politica di controllo sulla curva dei rendimenti obbligazionari (YCC)? Davvero rischia di essere il prossimo, potenziale tsunami dei mercati finanziari globali?
Il debito dei giapponesi è loro. E pagano pochissimo. Certo, occorre prospettiva. Gli oneri da interessi sono molto bassi, se presi visivamente, l’1%. Ma se si moltiplica per un debito che è due volte e mezzo il Pil, allora la questione cambia. Detto questo, Il capo economista di Nomura, Richard Koo, un coreano, scrisse senza troppa mitologia quale fosse la ratio dei giapponesi rispetto all’acquisto di debito da parte della Banca centrale: uscire dal crack degli anni Novanta, spesa pubblica come ammortizzatore dei debiti privati da far rientrare. Ma il 90-95% del debito nipponico è in mano giapponese. E la quota minima estera li mette al riparo da vendite che facciano salire i rendimenti, al di fuori della volontà e del controllo di Tokyo. Al limite, se la Banca centrale sbagliasse con la sua scelta rispetto alla YCC, sarebbero i cittadini/risparmiatori ad arrabbiarsi. Ma ritengo improbabile che succeda qualcosa di realmente drammatico. C’è una storia più interessante rispetto al Giappone, però. Se vuole la racconto…
Ovviamente.
Parliamo di 30 anni fa. Ero a New York e in un’occasione incontrai l’ambasciatore britannico a Washington, un uomo che prima aveva prestato servizio in Sud Africa e gestito l’intera fase di uscita dall’apartheid. Insomma, qualcuno che sapeva le cose. Tra un capannello e l’altro, mi avvicinai e gli chiesi conto del cambio dello yen, materia che studiavo ma a cui non trovavo una spiegazione. Perché nonostante gli avanzi di bilancia commerciale, quel cross non esplodeva? Lui mi guardò e mi disse eufemisticamente che ero un ingenuo. La ragione era che i giapponesi utilizzavano tutte le valute che ricevevano come sistema economico per acquistare debito Usa, quindi rivendevano dollari e si evitava un eccesso di domanda di yen. Ma c’è dell’altro che sottende gli enormi acquisti di Treasuries da parte di Tokyo: un’implicita volontà di ricatto verso Washington, affinché non diventasse troppo amico della Cina. E lo stesso vale per Pechino a partire dal 2005. Il problema? Quando le due detenzioni di debito Usa sono divenute equivalenti. E il potere di ricatto si è annullato, somma zero. E occorre non scordare mai una cosa, fondamentale: il presidente Usa ha il potere di sequestrare il debito estero, quando fosse a rischio l’autonomia politica e militare americana.
Restando in Asia, dove va la Cina di Xi Jinping? Al netto di una bolla immobiliare finora gestita ma comunque strutturale, il futuro è quello industriale/manifatturiero o addirittura dei servizi? E la Nuova Via della Seta, quale ruolo gioca?
Cos’è il modello di crescita asiatica? Semplice: lei è un poveretto, quindi il Paese produce schifezze perché altrimenti nessuno è in grado di acquistarle. Poi, si scopre il mercato estero e si cominciano a produrre manufatti sofisticati, di qualità. A poco a poco, l’economia del Paese si arricchisce e quelli che prima erano prodotti invendibili sul mercato interno, cominciano a prendere piede in una società più ricca. Banalizzata, ma la questione è questa. Ovviamente, un modello simile impone che il cambio della tua valuta non debba “scapparti” troppo di mano. E qui torniamo all’arma strategica dell’acquisto di debito Usa come, di fatto, dumping valutario.
E l’immobiliare, come si inserisce in questo contesto, stante il suo peso abnorme sulla crescita e l’economia cinese?
In Cina, il settore immobiliare rappresenta in toto il settore privato. La ricchezza in Cina va tutta nel settore immobiliare. Lo incarna. E il potere politico acconsente. Occorre sempre capire come funziona il potere, perché economia e finanza sono solo pezzi del potere. Possiamo dire che nel real estate cinese, il comunismo non c’è. Il vero problema della Cina è l’eccesso di risparmio che tiene bassi i consumi, molto più bassi del loro potenziale reale. Chiaramente, questo opera da freno a qualsiasi evoluzione di sistema. Le scuole costano in Cina. Ci si preoccupa con anticipo di come sistemare papà e mamma, quando saranno vecchi. E poi la sanità. Il cinese medio opera un risparmio precauzionale che è strutturale, culturale. Si tratta di un risparmio precoce e abnorme per una società con quei numeri, ecco quindi il combinato di esportazioni e infrastrutture come base portante del Pil. La Cina cambierà davvero quando creerà le condizioni per un aumento dei consumi interni. A quel punto, game changer.
E la Nuova Via della Seta?
Consequenziale. Se investi così tanto in infrastrutture, prima o poi arrivi a un termine. Per quanto il Paese sia vasto e densamente popolato, quante città puoi costruire prima che diventino le mitologiche “ghost town” che generano solo debiti sul real estate e restano disabitate? Quante autostrade puoi costruire? Certo, da una corsia puoi arrivare a farne cinque, sei. E farle pagare. Poi, però, game over. A quel punto, visto che il modello è testato, semplicemente lo esternalizzi. Costruire una strada fuori Pechino o un porto in Pakistan poco cambia, in base a quella logica.
Senza contare la strategicità geopolitica e diplomatica dell’operazione.
Certo.
A proposito di geopolitica, quali rischi reali vede nella situazione mediorientale? L’Iran è davvero la variabile potenzialmente impazzita a cui guardare?
Partiamo dal presupposto che davanti a noi non vedo un altro Yom Kippur. E per una ragione semplice: finora, i Paesi produttori del Golfo non si sono minimamente sognati di toccare l’offerta di petrolio. Avevano minacciato di farlo, ma, come sempre, alla chetichella e alla fine si è tramutato in un non aumento. Che è cosa ben diversa da un taglio della produzione, questo a livello di volontà di far lievitare i prezzi per generare una crisi energetica in Occidente. Finora, Iran e Russia hanno ottenuto risultati minimi. I Paesi del Golfo oggi sono più preoccupati di non perdere attrattività nei confronti dell’Occidente, quindi non hanno interesse a inimicarselo con guerre di cartello. Questa improvvisa mania saudita per il calcio, altrimenti come si spiegherebbe? Sanno che devono modernizzarsi e trovare appeal. Chi governa quei Paesi mica tiene i suoi soldi in patria. Acquista palazzi e società, partecipazioni e quote. Ma in Usa ed Europa.
L’Iran rischia quindi un isolamento, in caso decidesse di entrare nel conflitto direttamente come parte in causa?
A oggi, nemmeno Teheran mi sembra che abbia troppo interesse in tal senso. Non fosse altro per il peso residuale che ha in seno all’Opec. Vedo un unico rischio, in caso davvero si arrivasse a un’escalation che portasse il regime iraniano a una scelta di impazzimento, magari dettata da ragioni interne: il blocco dello stretto di Hormuz, chokepoint da cui transita buona parte del greggio saudita. In quel caso, lo shock sui prezzi potrebbe sostanziarsi. Non a caso, però, gli Usa hanno spedito le loro portaerei nell’area. A tempo di record. E al contrario della segretezza passata, rendendo ben nota la loro posizione. Più deterrenza di così.
Ultima domanda, torniamo in patria. Quali rischi per il nostro debito pubblico? E, soprattutto, come valuta la volontà del Governo di spingere sempre più clientela retail verso la detenzione di Btp, quasi una svolta giapponese? Strategica o disperata?
Guardiamo alla crisi precedente, quella del debito 2010-2011. Mario Monti arriva con lo spread a 750 punti base, ma già a inizio 2012 il nostro differenziale sul Bund ricomincia a salire. Costantemente. E strutturalmente. Nonostante il loden e la Fornero. Quando davvero cambia la musica? Con il “Whatever it takes” di Mario Draghi, il quale dice chiaramente che i giochi sono finiti. E chi fino ad allora vendeva Btp, sperando di ricomprarli a un prezzo minore, deve invece correre ad acquistarli con le valutazioni al rialzo, pur di chiudere le posizioni ribassiste. Ecco tutta la grande potenza della finanza: sono bastate tre parole di Mario Draghi per chiudere la questione. Perché la Bce, in quel momento, ha implicitamente detto che la costruzione europea va oltre gli orrendi difetti della Penisola. Non si capisce perché questa volta non debba essere così.
E la svolta retail?
Certo, se 70mila nonnine detengono 1 Btp a testa, è difficile che diano vita a un cartello per vendere. Ma seriamente, solo il 30% del nostro debito è in mano estera che può operare in modalità 2011, per capirci. Il resto è in mano a Bce e strutturalmente a banche e assicurazioni italiane. Prima del divorzio fra Tesoro e Bankitalia, quest’ultima acquistava – su mandato diretto della politica, del Principe – tutto l’inoptato del debito. Avere un debito concentrato o diffuso può certamente fare la differenza, ma, parliamoci chiaro, questa operazione da vero e proprio “oro alla Patria” è totalmente inutile in tal senso. E all’atto pratico della lotta preventiva contro attacchi speculativi.
Domanda finale, secca: il 17 novembre Moody’s declasserà il nostro debito a speculativo?
No. Perché non vedo chi possa beneficare in questo momento di un simile scossone, totalmente inutile. Le agenzie di rating da chi sono controllate? Dagli stessi che detengono assets. Se lei paga un liceo privato, certamente si aspetta un trattamento diverso che un liceo pubblico “offerto” dalla fiscalità generale. Inoltre, se dovesse accadere, immediatamente dopo toccherebbe ad altri. Ad esempio, il debito francese è ancora inferiore al nostro, seppur enormemente cresciuto negli ultimi anni. Ma sconta un’economia con un saldo primario negativo. E sa da quando? Dal 1974. In quel caso, tutto bene?
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.