Sergio Mattarella evoca il 1946: come allora, dice il Capo dello Stato, serve “un nuovo inizio. Superando divisioni che avevano lacerato il Paese”. Ma l’invocazione dello spirito costituente sembra oggi trovare il suo primo ostacolo nelle scelte del governo. L’Italia difetta di slancio perché l’emergenza è stata governata con la paura, senza infondere speranza e senso del futuro, dice Antonio Pilati, saggista, già commissario dell’Agcom e dell’Autorità Antitrust. Gli aiuti promessi mancano, le imprese sono lasciate sole, il partito del vincolo esterno – il Pd, in questo supportato da Confindustria – si affida al bancomat europeo ipotecando il futuro del paese; la magistratura e lo scontro Governo-Regioni accelerano la crisi istituzionale, riaprendo “pericolose linee di frattura” risalenti all’unità d’Italia. Mentre la crisi economica “è una bomba a orologeria che scoppierà in autunno”. Ancora una volta, come nel 2011, quando sarà troppo tardi ed emergeranno le responsabilità, toccherà all’Europa.
La riapertura del 3 giugno e alcune dichiarazioni sul virus (“clinicamente non c’è più”) sembrano avere infranto una barriera protettiva del governo. Perché?
Il governo, al pari di altri in Europa, ha tratto indubbiamente forza dall’emergenza ed è stato premiato nei sondaggi. È stato così anche per la Merkel. È l’effetto guida nel momento del pericolo. Quando l’emergenza viene meno, emerge l’eventuale debolezza dell’esecutivo.
Adesso che cosa ci aspetta?
Stiamo passando dalla fase dell’emergenza sanitaria a quella dell’emergenza economica. Il punto è che agli effetti dei provvedimenti presi in vista della ripresa economica si sommano quelli derivanti dal modo in cui è stata affrontata l’emergenza sanitaria.
E qual è il risultato?
L’emergenza sanitaria è stata affrontata puntando tutto sulla chiusura, sulla reclusione, e poco su modalità tecnologiche sofisticate. Il contenimento forzato ha voluto dire senso di paura, timore di quello che ci sarà domani. Ma oltre alle indicazioni di sicurezza bisogna infondere anche la speranza, la fiducia, il senso del futuro. Questo è mancato completamente.
Dov’è stato l’errore?
Il rilancio è stato assoggettato alle prescrizioni, al cerimoniale barocco dei comitati tecnico-scientifici. Che hanno prodotto regole su regole, frenando la creatività e lo slancio. Si è tenuta ferma l’Italia con la paura e adesso lo sblocco è difficile.
E i provvedimenti economici?
Non favoriscono la ripresa perché puntano tutto sull’erogazione di reddito agli individui, non sulla tenuta e il rilancio delle imprese, dalle quali dipende economicamente l’Italia. Tra tasse, mancati introiti, concorrenti che partono prima di noi, molti attività rischiano di saltare.
Bonomi (Confindustria) ha rivolto critiche molto dure ai provvedimenti del governo, auspicando però il ricorso senza se e senza ma ad ogni strumento europeo possibile, dal Recovery Fund al Mes. È la strada giusta?
Vuol dire guardare il problema dal lato puramente finanziario: il nostro bilancio è fragile e quindi tutti quelli che ci fanno credito sono benvenuti.
Intende dire che l’aspetto politico non viene considerato?
Abbiamo un debito già elevato e più si fa debito, più impegniamo il nostro futuro. Lo stiamo impegnando con i mercati finanziari e con l’Unione Europea. Nessuno dei due fa beneficienza, anzi sono creditori molto esigenti.
Quindi?
Rischiamo di avere il futuro ipotecato. Questo può essere sgradito a chi ha un sentimento nazionale più forte; può essere visto addirittura con favore da un partito come il Pd.
Il partito del vincolo esterno.
Storicamente no: il vincolo esterno comincia alla fine degli anni 70 quando l’Italia entra nello Sme. Il Pci è contrario e in Parlamento l’esponente del Pci che argomenta contro si chiama Giorgio Napolitano.
Poi però le cose cambiano.
Nel corso degli anni 80, quando si comincia a sfaldare l’Urss e cade il Muro, e nei primi anni 90 con l’arrivo del trattato di Maastricht, il Pci e le varie denominazioni che gli succedono trovano la loro ragion d’essere nell’europeismo. Di fatto, adesso il Pd è il partito del vincolo esterno.
Non c’è solo la crisi economica. La crisi della magistratura può essere limitata al caso Palamara?
È in crisi la magistratura in quanto componente fondamentale del sistema politico uscito da Mani Pulite. I partiti erano l’asse portante della prima repubblica; la magistratura, che li ha distrutti, lo è della seconda, che infatti comincia con la riforma dell’articolo 68 della Costituzione e la fine dell’immunità parlamentare.
Cosa emerge a suo modo di vedere dalle ultime intercettazioni?
Si è reso evidente che la magistratura è anch’essa una casta. La gestione spregiudicata del potere che è stata imputata per trent’anni ai politici appare uso comune dei vertici della magistratura.
Quali sono gli effetti di tutto questo?
Si indebolisce un pilastro fondamentale, ancorché non formalizzato, dell’ordine politico attuale.
La posizione assunta dal Quirinale è adeguata alla situazione?
Il Colle, come abbiamo visto negli ultimi anni, ha una grande varietà di strumenti. Spesso è stata usata la moral suasion, che consiste nell’esercizio dell’autorevolezza propria del presidente della Repubblica. Non credo che il vicepresidente del Csm potrebbe restare al suo posto se il presidente gli dicesse che è meglio non farlo.
Questo è l’unico fattore di crisi istituzionale?
No. Questa emergenza ha fornito la prova del disordine istituzionale che si è creato in Italia con la riforma del Titolo V nel 2001. Molti costituzionalisti hanno detto che il nuovo sistema era squilibrato e inefficiente e in questi mesi ne abbiamo avuto la prova: Regioni che contestano Regioni, città che contestano Regioni, Regioni che contestano il governo centrale.
Dove porta questa situazione?
Vedo approfondirsi pericolose linee di frattura a causa della gestione dell’emergenza. Sono faglie che il fragile Stato italiano aveva fin dalla nascita, e che il miracolo economico e la pedagogia unitaria hanno in parte coperto, ma non sanato.
Un esempio di queste ultime fratture?
I partiti e gli esponenti di un governo radicato nel mondo dell’apparato pubblico non si sono fatti scrupolo di attaccare la Lombardia, una Regione che crea molta parte della ricchezza dell’Italia e paga una quota notevole dei costi strabordanti dell’apparato pubblico. Da milanese è una cosa che mi ha molto addolorato.
Come spiega le pressioni su Conte provenienti dall’interno del governo, anche dal Pd?
Col calendario. La crisi economica è una bomba a orologeria che scoppierà probabilmente in autunno. Attività commerciali che non riaprono, imprese che non ce la fanno, disoccupati in aumento sono una materia che il governo non riesce a gestire: i falsi hacker dell’Inps ne sono un esempio clamoroso. Arrivare alla crisi con un governo così fragile, con responsabilità crescenti sulle spalle, non fa comodo a nessuno.
Può essere che l’Ue, di fronte a una crisi data per certa, prenda il controllo della situazione italiana con un’ingerenza ancora più forte?
L’Italia è la terza economia dell’eurozona e dell’Ue, il terzo paese come popolazione; è un elemento cruciale della costruzione europea. Nessuno, soprattutto in Germania, con filiere produttive che sia allungano nel Nord Italia, può permettere che il paese crolli.
Che crolli no; che non decida più le sue politiche fiscali, o che tagli le pensioni, forse sì.
Tutti i meccanismi di cui si parla, dal Mes al Recovery Fund, hanno un significato essenziale: trovare il modo di tenere sotto controllo la spesa pubblica e il debito dell’Italia. Del resto, un tedesco o un olandese che vedono un paese con un debito così elevato finanziare i bonus per i monopattini perché non dovrebbero preoccuparsi?
Cosa pensa del piano Bazoli-Tremonti, sostenuto anche da Sapelli, basato sull’emissione di titoli pubblici a lunga scadenza e il loro acquisto da parte dei risparmiatori?
Buona idea. Ma chi lo chiede deve ispirare molta fiducia.
Il suo scenario?
Forse ci aiuta un flashback. Nel 2011, quando la crisi non era ad un punto di gravità come quello attuale, l’Unione Europea intervenne in maniera quasi diretta.
Perché non c’è una percezione della gravità della crisi in arrivo?
Non sono d’accordo. Già adesso il più ottimista dice, in sostanza, io speriamo che me la cavo.
Nel 2017 in Italia c’erano poco più di 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici in 12.800 istituzioni diverse (dati Sole 24 Ore). Persone che non sentiranno la crisi.
Forse. Ma se la crisi si aggrava, anche le pensioni potrebbero essere toccate, proprio come è successo in Grecia.
L’opposizione?
Di fronte al disastro che sta arrivando, forse poteva dire qualcosa di più.
(Federico Ferraù)