“Speriamo che il 2020 non sia solo un anno da dimenticare” perché ci lascia in eredità “la necessità di una riflessione critica sul nostro ordinamento sociale, sulle difformità nelle garanzie, sulla trascuratezza verso l’ambiente e soprattutto verso la scuola, di cui non ci preoccupiamo affatto ed è molto preoccupante”. Così la sociologa Chiara Saraceno si lascia alle spalle un 2020 che è stato l’emblema di “un prima sempre più pieno di ombre e di percorsi rischiosi, che la pandemia ha fatto esplodere”. E per affrontare il nuovo anno appena iniziato, nel pieno di un’Italia sfiduciata e allo sbando, soprattutto dal punto di vista politico-istituzionale, Saraceno suggerisce una parola-chiave: fiducia. “Senza fiducia non c’è futuro, non c’è possibilità di collaborazione, non c’è possibilità di investimento. È un’Italia in cui le basi della fiducia vengono sistematicamente erose, invece bisognerebbe permetterne lo sviluppo”.



Il 2020 è solo un anno da dimenticare, e in fretta, perché ci lascia in eredità solo incertezze, paura e stanchezza?

Speriamo di no. Ci lascia in eredità anche la necessità di una riflessione critica sul nostro ordinamento sociale.

Perché?

Di fronte alle restrizioni si sono evidenziate difformità nelle protezioni e nelle garanzie tra chi era coperto e chi no. Ma si è riflettuto anche sulla trascuratezza verso l’ambiente, che può essere una delle cause della diffusione della pandemia, o sull’organizzazione del sistema sanitario.



Una riflessione critica dunque s’impone. Per approdare a cosa?

Non certo per tornare il più possibile a come era prima, anche se potrebbe essere una tentazione soprattutto per coloro che prima della pandemia non stavano certo male. Però questo prima appare sempre più pieno di ombre e di percorsi rischiosi, che poi sono esplosi con la pandemia, ma erano già presenti.

La pandemia ha accelerato solo processi negativi o abbiamo ricevuto una lezione da custodire?

La pandemia ha senz’altro portato cose negative, ma ci ha anche fatto vedere cose che erano già negative o che non funzionavano. Penso, per esempio, a tutto il dibattito, purtroppo poco sviluppato, sulla scuola, l’educazione, le disuguaglianze dentro la scuola, la povertà educativa. Problemi già esistenti, ma che adesso non dovremmo più non poter vedere, anzi dovremmo attrezzarci per contrastarli. E poi c’è il tema della capacità di solidarietà.



Il Censis dice che siamo diventati più egoisti. È così?

Io non sono buonista, non penso che usciremo dalla pandemia migliori di prima e che tutto andrà bene, ma di fronte a resoconti troppo irenici o molto più cinici, come appunto il rapporto Censis che ci descrive tutti un po’ più egoisti, si sono però scoperti tesori di solidarietà personale ma anche di capacità di organizzazione civica, che sarebbe bene non andassero dispersi. È una voglia di fare qualcosa di utile, non solo di buono, per gli altri su cui bisognerà lavorare perché rimanga, venga valorizzata, si solidifichi e diventi sistema e non eccezione.

Dopo mesi di lockdown e di restrizioni si avverte o no una voglia di ripresa, secondo lei?

Certamente la voglia c’è, anche perché se non riprendiamo rischiamo una brutta fine. C’è la voglia normale di tornare a vite più normali, meno costrette da vincoli. Bisogna però stare attenti a pensare che si possa riprendere così come niente fosse, anche perché il Covid rimarrà con noi a lungo e se va bene solo forse a fine anno con le vaccinazioni avremo l’immunità di gregge. Ma non sappiamo se e quando il virus tornerà. Dovremo abituarci a vite più controllate e ad assumerci maggiori responsabilità per il benessere complessivo. È una voglia che non va uccisa, anche la politica non può solo oscillare dentro la fretta di chiudere senza dare un orizzonte e un percorso praticabile.

Si parla tanto di nuova normalità: da quali punti fermi, àncore, appigli si può ripartire?

Occorre dare una comunicazione pubblica, collettiva, sul fatto che atteggiamenti di prudenza e protezione sono qui per rimanere. Tutte le riprese non possono prescindere da problemi di sicurezza e di prevenzione, sarà necessario organizzare in maniera più ampia e organica la sicurezza nelle imprese e andrà ripensata anche l’organizzazione delle città. E nella scuola, visto il fallimento della Dad, sarà sempre più urgente innovare la didattica. Una ripresa che sia anche creativa, che utilizzi quello che abbiamo imparato, nella direzione di una maggiore efficacia ed equità.

Giovani e scuola: abbiamo ucciso una fetta di futuro? Possiamo parlare di generazione perduta?

Detta così è un po’ troppo radicale, vorrei dare una chance a questa generazione. Certamente non stiamo facendo molto perché non si perda, soprattutto rispetto alle fasce più svantaggiate. Profondamente sbagliato non preoccuparcene adesso, come stiamo facendo, perché non è stato messo nulla in campo dal punto di vista istituzionale, pur in presenza di splendide iniziative di singole scuole, di singoli insegnanti e di molta società civile. Mancano però un pensiero, un’attenzione istituzionale e questo è molto preoccupante. E non è che non ci siano i dati, le disponibilità, i modi.

Allora come dare una chance a questa generazione?

I fondi Next Generation Eu, che impropriamente chiamiamo Recovery fund, dovrebbero avere i giovani, che stanno pagando un prezzo molto alto, al centro del loro cuore, creando occasioni, strumenti, modalità, a partire dall’istruzione e dall’educazione. Cosa facciamo per loro? Che tipo di scuola, di comunità locale creiamo per loro affinché possano non solo recuperare il perso, ma sviluppare appieno le proprie potenzialità?

Stiamo vivendo un’emergenza su più livelli: sanitaria, economica, educativa, psicologica e istituzionale. L’Italia è allo sbando?

Sicuramente. E lo è in particolare per quanto riguarda la politica. Quello che sta succedendo in questi giorni è drammatico, al di là delle singole buone ragioni. È come se a nessuno interessasse dove stiamo andando a sbattere. Ci sono però tantissimi nella società civile, che – come possono, dal basso – stanno tentando di tenere assieme questa barca, ma se non tiene l’apparato istituzionale e politico il rischio è altissimo. C’è uno sfilacciamento terrificante, con perdita reciproca di fiducia. Bisognerebbe avere più fiducia nei cittadini, invece è stato dispensato troppo paternalismo e poco coinvolgimento, specie dei più giovani, come adulti responsabili.

Si può individuare una parola chiave che ci accompagni nel 2021?

La parola chiave potrebbe essere proprio fiducia, però la fiducia non cresce sugli alberi, va costruita. Senza fiducia non c’è futuro, non c’è possibilità di collaborazione, non c’è possibilità di investimento. È un’Italia in cui le basi della fiducia vengono sistematicamente erose, invece bisognerebbe permetterne lo sviluppo.

(Marco Biscella)