Evitato il No Deal con il Regno Unito e cominciata la campagna vaccinale contro il Covid, l’Europa cerca di guardare al 2021 con rinnovata speranza dopo un annus horribilis. Anche se, come spiega Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, i fatti degli ultimi due mesi «hanno ridotto le prospettive di crescita per il nuovo anno. Per esempio, se prima si diceva che l’Italia poteva crescere del 5%, ora si stima un +4%. Si tratta però di cifre scritte sulla sabbia, nel senso che un rimbalzo nel secondo trimestre del 2021 rispetto a quello di quest’anno quasi sicuramente ci sarà. Ma complessivamente è difficile dire di quanto salirà il Pil».



È una difficoltà che riguarda altre aree del globo?

In realtà per una parte del mondo che equivale all’incirca a più di 2 miliardi di persone, semplicemente la pandemia non esiste più. Stiamo parlando della Cina, dei Paesi limitrofi come il Giappone, il Vietnam e gran parte dell’Asean, l’Australia e la Nuova Zelanda. Secondo l’Ocse, l’economia cinese chiuderà il 2020 con una crescita del 2% a l’anno prossimo farà registrare un +8%. Chi si trova davvero in difficoltà sono l’Europa, parte del Sud America e gli Stati Uniti dove si stanno pagando le scelte folli del thanksgiving con un’esplosione di contagi e un gran numero di vittime per il Covid. 



Dunque la locomotiva dell’economia sarà la Cina?

Assolutamente sì. Se riusciremo ad avere più scambi commerciali con Pechino potremmo sfruttarne il traino. 

Sarà quindi importante chiudere l’accordo Ue-Cina che sembra vicino al traguardo…

Non sarà semplice chiuderlo. L’impressione è che la Cina voglia un’Europa in posizione subordinata in quest’accordo, soprattutto sul piano della tecnologia. Del resto è più avanti di noi, come dimostra il caso del 5G. 

Negli ultimi mesi si è però parlato di sovranità digitale e tecnologica europea. È un progetto troppo velleitario?



In Europa abbiamo piccole e forti aree di eccellenza per quel che riguarda internet, ma non abbiamo le strutture fondamentali, quello che si chiama l’hardware, che dobbiamo acquistare dall’estero. Basti pensare che non esiste un telefono cellulare europeo. Dunque sul piano tecnologico e digitale la Cina sarà avanti agli altri per diverso tempo.

Gli Stati Uniti come vedranno un rapporto più stretto tra Cina ed Europa?

Male. E anche per questo l’accordo tra Pechino e Bruxelles non è stato ancora chiuso. Sarà importante vedere quali saranno le mosse della nuova Amministrazione dopo che Trump ha portato via delle truppe e stracciato un accordo sul disarmo nucleare con la Russia che era importante anche per l’Europa. È poi da vedere se Biden si insedierà in maniera pacifica o se ci saranno disordini, viste le minacce dell’attuale Presidente di manifestare davanti alla Casa Bianca nel giorno dell’insediamento. Al momento sembra di capire che i Repubblicani si siano in gran parte sganciati da Trump. 

L’Europa riuscirà a non restare schiacciata tra Usa e Cina?

Ancora non sappiamo che cosa vogliano fare gli Stati Uniti. L’Europa, puntando sulla questione climatica e sui giovani, sviluppando la tecnologia che ha già, portando avanti il progetto di transizione industriale, può probabilmente riuscire a non farsi schiacciare. Almeno nel breve periodo.

E l’Italia? Dal dopoguerra abbiamo un rapporto privilegiato con gli Usa, ma allo stesso tempo siamo il Paese europeo che ha aperto di più le porte alla Cina siglando l’accordo sulla Via della Seta…

È veramente difficile rispondere, perché abbiamo un quadro politico interno incerto e un Presidente americano che ancora non si è insediato. Dal punto di vista commerciale è invece certo che i nostri rapporti indispensabili sono quelli con Francia e Germania: Usa e Cina non sono in testa alla classifica degli scambi.

A proposito di scambi commerciali, l’apprezzamento dell’euro sul dollaro rappresenta un problema serio per le nostre esportazioni.

Sì, ma come detto gli scambi con gli Stati Uniti non sono quelli più importanti per l’Italia. E poi bisognerà vedere cosa vorrà fare Washington su questo fronte. Perché se da un lato un dollaro debole aiuta a rilanciare l’economia interna, favorendo i prodotti americani rispetto a quelli stranieri (per esempio, il vino californiano rispetto a quello italiano; quest’ultimo, infatti, solo per il cambio, costa il 17% in più rispetto a un anno fa), dall’altro se gli Stati Uniti vogliono rimanere una potenza finanziaria, e contrastare anche i progetti cinesi, hanno bisogno di un dollaro forte.

(Lorenzo Torrisi)