Per i comuni la decisione è già ufficiale, per le regioni sembra che si vada nella stessa direzione: i rinnovi delle amministrazioni che scadono nel 2025 slittano alla primavera del 2026. Lo ha stabilito la circolare 83/2024 del ministero dell’Interno, tenuto conto che nel 2020 si era votato a settembre per via del Covid. E lo stesso accadrà per gli enti dove il mandato degli amministratori scade nell’autunno del 2026: urne rinviate alla primavera dell’anno successivo. La ratio della decisione è chiara: ridurre i costi e favorire la partecipazione, unificando tutte le scadenze in un unico election day, fissato nella tradizionale finestra compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno di ogni anno.
Per le regioni la questione è un po’ più complessa, perché spesso la materia elettorale è regolata in maniera rigida nei rispettivi statuti. Da Roma, però, il pressing per unificare tutto è forte. E stiamo parlando di ben sei regioni: Campania, Marche, Puglia, Toscana, Valle D’Aosta e Veneto (in rigoroso ordine alfabetico).
All’improvviso si delinea quindi davanti alla politica un intero anno senza alcun turno elettorale. Un’eternità, che apre lo spazio al dispiegarsi di operazioni politiche difficili altrimenti. In apparenza, infatti, la situazione è stagnante, con uno stabile vantaggio della coalizione di governo rispetto al campo delle opposizioni e una leadership chiara che guida il governo. Nulla però garantisce che questo stato di cose duri in eterno. Nel campo dell’opposizione infatti prima o poi qualcosa dovrà succedere per costruire un’alternativa credibile al sistema Meloni. Più credibile di quella attuale, intendiamo. E da questo punto di vista il Pd, perno inevitabile di questa alternativa da costruire, si trova in difficoltà da almeno due versanti: da una parte la ritrosia di Conte ad accettare il ruolo di cespuglio, dall’altra la riorganizzazione dell’area centrista/cattolica, magari intorno alla figura evocata in questi giorni di Ernesto Maria Ruffini.
Per quanto riguarda il rapporto con i pentastellati 2.0, l’assenza di elezioni probabilmente spingerà l’ex premier a muoversi in autonomia, rifiutando di dichiararsi favorevole ad un’alleanza strutturale con il partito del Nazareno. Per la leadership di Schlein si prospetta una lunga fase di montagne russe, cui si aggiungerà la turbolenza indotta dai movimenti dell’area moderata. Perché la necessità di mettere in campo un Ruffini nasce da una debolezza della segretaria dem, dalla sua incapacità di parlare a un mondo moderato diffidente rispetto a una impronta eccessivamente di sinistra.
Ci sono poi i fattori esogeni, quelli estranei al gioco strettamente politico, che potrebbero sviluppare fenomeni rilevanti grazie a un lungo periodo senza test elettorali. La spada di Damocle della politica italiana è la sempre smentita discesa in campo di uno dei figli di Silvio Berlusconi. Se avvenisse, rivoluzionerebbe il panorama politico, raccogliendo intorno a Forza Italia molti moderati oggi sparsi nei vari poli. L’interlocutore privilegiato sarebbe – anzi, è già – il Pd. I due poli, per come siamo venuti a conoscerli negli ultimi anni, ne sarebbero scompaginati.
Ma fattori esterni capaci di incidere sull’attuale maggioranza potrebbero essere le consultazioni referendarie, nel caso diventassero l’unico appuntamento del 2025 dei cittadini con le urne. Questo specie se la Corte Costituzionale dovesse dare il via libera al quesito per l’abrogazione della legge attuativa dell’autonomia differenziata. Sempre che (altro condizionale) nel voto si raggiunga il quorum per la validità, cosa su cui la maggior parte degli esperti è scettica. Se però il corpo elettorale davvero bocciasse l’autonomia, per la maggioranza sarebbe una ferita gravissima, quasi mortale. Una parte della Lega, ovvero i nordisti lombardi e la componente di Zaia, perderebbero la ragione prima per stare al governo, non è dato capire con quali conseguenze per il Carroccio; e sotto le macerie finirebbe pure il premierato, caro a Fratelli d’Italia ma già fatto abilmente scivolare fuori dal cono di luce. Anche un’eventuale condanna in primo grado di Matteo Salvini nel processo Open Arms sarebbe un forte generatore di turbolenza.
Tanti punti interrogativi, insomma, che è però bene tenere presenti. Perché in un anno senza elezioni possono accadere tante cose. E alla fine la geografia politica italiana potrebbe uscirne profondamente trasformata.
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