Dopo l’iter travagliato per l’approvazione della legge di Bilancio 2020, le dimissioni del ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, hanno aperto di fatto, e con clamore, una nuova ondata di fibrillazioni all’interno di una maggioranza, già litigiosa di suo, che a gennaio dovrà fare i conti con una serie di salite sfiancanti manco fosse una tappa pirenaica del Tour de France: prescrizione, autonomia rafforzata, caso Ilva, decreto Autostrade, salvataggio Popolare di Bari, caos Libia e a fine mese elezioni regionali in Emilia-Romagna. Il governo potrebbe uscire da questo gennaio con i crampi? O potrebbe addirittura forare e abbandonare la corsa? “Il pericolo esiste – risponde Guido Gentili, editorialista del Sole 24 Ore – perché il quadro politico resta molto complesso e delicato, carico di temi molto divisivi”. E Gentili invita a guardare soprattutto in casa Cinquestelle: “Nel momento in cui dovessero esplodere divaricazioni molto forti all’interno dei partiti di maggioranza, e molto dipenderà dal grado di compattezza o meno del M5s, si capirà se Conte intenderà giocare o non giocare la carta di un suo partito, specie se il quadro di governo dovesse rompersi”.
Le dimissioni di Fioramonti sono un brutto segnale per il governo? Quanto lo destabilizza?
Il segnale non è certamente positivo, l’uscita è arrivata un po’ a sorpresa rispetto ai tempi, benché le dimissioni fossero nell’aria e il ministro le avesse prefigurate già diversi mesi fa, quando disse: se non ci saranno nella manovra 3 miliardi per la scuola, io me ne andrò. Ora ha mantenuto fede alla parola data. Il guaio è che queste dimissioni si inseriscono in un quadro politico complicato per il governo, dopo il già travagliato iter per l’approvazione della legge di Bilancio 2020.
Si riferisce all’annunciata verifica di governo con l’agenda fino al 2023 che si terrà a gennaio?
Esatto. In una maggioranza di governo, che ha una trazione quadrupla – M5s, Pd, LeU e Iv – e un tasso di litigiosità e di polemiche molto elevato, come si è visto appunto nel corso della discussione sulla manovra, queste dimissioni rendono tutto molto più delicato e complesso. Anche perché a gennaio si sommeranno tutta una serie di misure e provvedimenti su cui le tensioni restano altissime: dalla giustizia, dove il Pd è intenzionato a ridimensionare i piani del M5s sulla prescrizione, allo stesso tema dell’istruzione, con Italia Viva che pur avendo firmato la legge di Bilancio ha subito dopo fatto sapere che le risorse per la scuola, l’università e la ricerca sono poche, o all’autonomia rafforzata.
Oltre a questi temi, restano sul tavolo anche caso Ilva, decreto Alitalia, nodo concessioni Autostrade, salvataggio Popolare di Bari e, last but not least, il voto in Emilia-Romagna. Sarà un gennaio in salita con gravi e crescenti rischi di foratura per il governo?
Non c’è dubbio che gennaio si presenta come un mese delicatissimo e decisivo per le sorti del Conte 2. I temi di politica industriale o il caso della revoca della concessione ad Autostrade sono assolutamente dirompenti e divisivi per la maggioranza. E il voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna non farà altro che alzare la temperatura politica, anche all’interno della maggioranza e tra la maggioranza e l’opposizione, man mano che ci si avvicinerà all’appuntamento. Alla fine, il risultato combinato del voto regionale, qualora il Pd e il M5s dovessero perdere questa scommessa, e delle ripicche interne al governo potrebbe essere deflagrante.
Si parla molto di un possibile partito di Conte. Che cosa ne pensa? È ipotizzabile?
È un’idea che potrebbe concretizzarsi, anche se finora il premier ha negato questa possibilità. Sappiamo però che è una tentazione ricorrente, lo abbiamo visto per esempio dopo il governo Monti con la nascita di Scelta Civica. A dire il vero, queste esperienze non hanno mai portato fortuna a chi le ha intraprese e hanno prodotto risultati molto inferiori rispetto alle attese. Nel momento in cui dovessero esplodere divaricazioni molto forti all’interno dei partiti di maggioranza, e molto dipenderà dal grado di compattezza o meno del M5s, a cui si dovrà guardare con molta attenzione, si capirà se Conte intenderà giocare o non giocare la carta di un suo partito, specie se il quadro di governo dovesse rompersi.
A proposito di compattezza del M5s, già Di Maio è in discussione, si parla da tempo di una possibile scissione interna e lo stesso Fioramonti sembra intenzionato a fondare un suo partito. I Cinquestelle potrebbero essere una miccia pericolosa per innescare la crisi?
Potrebbero esserlo. Teniamo anche conto che la loro attuale consistenza parlamentare, legata al 32% di voti raccolti alle politiche del marzo 2018, appartiene ormai a un’altra era geologica rispetto alla situazione attuale. È già questo un dato molto destabilizzante. In più, all’interno del Movimento si è creata una situazione molto complicata e difficile, come mostrano l’andamento deficitario delle restituzioni delle quote di stipendio dei parlamentari o le recenti insofferenze verso la Casaleggio Associati. Segnali che indicano un indebolimento della leadership di Di Maio. Anche se poi alla fine può sempre prevalere l’idea che sarebbe meglio non andare a votare per guadagnare tempo, perché molti parlamentari cinquestelle non verrebbero più rieletti.
A questo punto l’unica stampella stabile che resta al governo è il Pd, che per voce di Zingaretti ha pure fatto recentemente un endorsement esplicito a favore della premiership di Conte?
Il Pd è diventata la stampella più forte, dopo un posizionamento molto ondivago. Zingaretti era partito dal no all’alleanza con il M5s a un sì e alla nascita di un governo, passando anche per un no allo stesso premier. Poi questo no è diventato un sì, più tardi un sì convinto e oggi addirittura Conte viene additato come un faro per l’intera sinistra italiana. Il tutto nell’arco di pochi mesi. Il Pd oggi continua a fronteggiare difficoltà oggettive, come sui temi della giustizia, ma Zingaretti, dovendo fare i conti con problemi interni dopo l’uscita di Renzi e di Italia Viva, cerca di stringersi a questo governo e a questo premier, anche in questo caso per guadagnare tempo. Per il futuro del Pd saranno decisive le elezioni in Emilia-Romagna.
In queste ore il quadro in Libia si sta complicando. Anche in politica estera il governo manifesta una debolezza pericolosa?
La Libia è un tema molto scivoloso. Francamente, a questo punto, non saprei dire qual è la posizione dell’Italia, perché nelle ultime due settimane abbiamo assistito ad iniziative del premier Conte e del ministro Di Maio con incontri a larghissimo raggio, compresi quelli con i due contendenti diretti, Sarraj e Haftar, fino ad arrivare alla chiacchierata dell’altro ieri tra Conte e Putin. Mi sembra che purtroppo una rotta italiana precisa non ci sia e sulla Libia, dalla fine di Gheddafi in avanti, l’Italia non ha saputo svolgere un ruolo all’altezza della sfida. Ma la Libia non è l’unico caso in cui non abbiamo una linea chiara su una questione di politica estera che si intreccia con la sicurezza nazionale.
Il caso Huawei?
Verso questo gigante cinese, foraggiato con 75 miliardi di dollari dal governo di Pechino come ha mostrato una bella inchiesta del Wall Street Journal che non è stata smentita, il M5s ha una posizione di grande apertura, ma gli Usa hanno, anche recentemente, messo in guardia sui rischi di questa apertura. E questo ci crea problemi seri, con un governo che non ha ancora assunto una posizione chiara. Anzi, mi meraviglia che il Pd abbia detto poco o nulla su una vicenda di importanza così strategica.
(Marco Biscella)