Chiamiamole per nome, come ha fatto Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento davanti al Parlamento, queste candidate “rosa” alla leadership “rosso-verde” di una sinistra globale in affanno. E cominciamo dalla più “underdog”, così come si è orgogliosamente definita la nuova Premier italiana, che sta fra l’altro agendo da lepre per una sinistra italiana scopertasi drammaticamente in ritardo sul ruolo delle donne nelle stanze del potere politico.



Angela (Bowen Rayner) è poco nota fuori dalla Gran Bretagna. Per la verità non è un’outsider  immeritevole di un penny di scommessa. Oggi – quando mancano ancora due anni dalla scadenza delle elezioni generali – è già la numero due del Labour Party, quindi vicepremier-ombra. In concreto: se in Inghilterra si votasse in anticipo – non impossibile – lo diventerebbe quasi con certezza subito, con la delega al Lavoro. Dopo lo storica débacle del Governo Truss< (seguito alla disastrosa cacciata di Boris Johnson), i sondaggi dicono che i laburisti hanno altissime probabilità di riconquistare Downing Street, persa nel 2010. Non era affatto così appena sei mesi fa: quando la compassata leadership oxfordiana di sir Kay Starmer non sembrava poter minimamente impensierire la carismatica premiership conservatrice di “BoJo”, poi travolta dalle troppe intemperanze personali e politiche.



Forse è stato questo clima di relativa disattenzione/sfiducia a favorire la scalata al Labour di Angela: nata 42 anni fa all’estrema periferia di Manchester, nel cuore industriale, rosso-fuliggine, del Nord inglese. Il gergo politicamente corretto narra di un’infanzia in una famiglia “disfunzionale”, ma lei non ha mai avuto remore a raccontare di un padre assente, di una madre semi-analfabeta con disturbi psichici, di quasi-povertà. Ogni sua “bio” – da autentica “underdog” – inizia all’età di 16 anni: quando a furia di non andare a scuola rimane incinta (e quel primo figlio, allevato da “single”, l’ha già resa nonna). Per tirare avanti Angela frequenta un corso di assistente domiciliare e inizia a lavorare come dipendente comunale di Stockport, la cittadina dov’è nata e che molti anni dopo l’ha eletta ai Comuni. Comincia a fare la sindacalista di base in Unison, la più grande “trade union” inglese, forte soprattutto nel pubblico impiego scolastico e sanitario.



Nel sindacato Angela non solo decolla come dirigente, non solo brucia le tappe nella carriera di partito rapida, ma trova anche un marito, che le dà altri due figli (uno nato prematuro e disabile). Angela si definisce “socialista”, cioè esponente di una sinistra pragmatica, radicata “nella working class”. Quindi: forte sostenitrice della scuola e della sanità pubblica, ma anche – nella stessa visione – di una pubblica sicurezza efficiente. Il suo inglese – spesso sgraziato – è il contrario del politicamente corretto quando liquida i tory come “feccia di etoniani razzisti, misogini e omofobi”. Sabato il Financial Times – il quotidiano della City “etoniana” – le ha riservato una pagina d’intervista, solitamente riservata alle celebrities globali, ricche e potenti.

Wikipedia dice che “Michelle LaVaughn Robinson Obama è un avvocato e scrittore americano, che ha svolto il ruolo di First Lady degli Stati Uniti d’America dal 2009 al 2017”. Non ha mai ricoperto incarichi politici, anche se il suo ruolo dietro l’ascesa del marito Barack – da funzionario municipale a Chicago fino alla Casa Bianca a soli 48 anni – è stato più rilevante di quanto sia stato detto e scritto. Forse non così incisivo e visibile come quello di Hillary Clinton – da First Lady di Bill a segretario di Stato e candidato “dem” alla Casa Bianca nel 2016 -, ma certamente assai superiore a quello di “Mom-in-Chief”.

Come i Clinton, gli Obama sono da subito un “partito-famiglia”: entrambi laureati alla prestigiosa School of Law di Harvard, s’incontrano in uno studio legale di Chicago. E in quegli anni Michelle non ha minor profilo pubblico del futuro marito, anzi: è ai vertici di numerose attività no-profit dell’Università di Chicago. Gli anni di Barack alla Casa Bianca – primo Presidente non bianco –  regalano poi a Michelle non soltanto un’immensa popolarità planetaria, ma anche un ruolo proprio come testimonial di punta per battaglie civili su tutti i fronti anti-discriminatori e su quello della salite: contro l’obesità, “malattia sociale” da junk-alimentazione diffusissima tra i giovani americani.

Negli ultimi anni ha condiviso con il marito “former president” un impegno deciso nell’arena planetaria del contrasto al cambiamento climatico, ma non rinunciando allo sviluppo di un profilo proprio: condensato in “Becoming”, un bestseller internazionale intessuto di ricordi ma anche di suggestioni politico-culturali. Di lei – che ha tenuto discorsi alle ultime quattro convenzioni democratiche – si parla da anni come possibile candidato “dem” alla Casa Bianca. Il suo nome è stato rilanciato negli ultimi giorni, quando la “non sconfitta” di Joe Biden nel midterm ha reso forse più urgente ancora la ricerca di un candidato diverso dall’80enne presidente in carica per la sfida del 2024 (contro Donald Trump o forse Ron De Santis, astro nascente repubblicano).

Una corsa della 58enne Michelle alla Casa Bianca – dove nessuna donna ha finora mai sfondato il “soffitto di cristallo” – si profila come “piano B” alla ricandidatura dello stesso Barack, non consentita da un emendamento alla Costituzione. Non sono pochi gli analisti convinti che nel 2016 “gli Obama” avrebbero fermato Trump e che la stessa vittoria di Biden nel 2020 e l’inattesa “resistenza” al midterm 2022 siano state pilotate dietro le quinte dall’ex Presidente e dalla moglie. Hillary Clinton, d’altronde, nel 2016 tenne fuori il marito dalla sua campagna e a conti fatti fu un errore (Bill era un politico-rabdomante e non si era identificato con le élites come la moglie). Ma era giustificata la preoccupazione di una deriva “familistica” alla Casa Bianca, dopo quella dei Bush padre e figlio. È forse questa l’incognita vera sulla strada di Michelle.

Elena Ethel “Elly” (Schlein), in Italia, non intende lasciare allo stato di ballon d’essai la sua candidatura a leader del Pd: al quale non è iscritta, benché nelle sue file sia stata eletta europarlamentare nel 2014, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna nel 2019 e deputata la scorso 25 settembre. Il suo curriculum vitae continua ad attirarle per lo più critiche, ironie, derisioni aperte. Elly è nata in Svizzera da un padre americano israelita e da madre italiana, entrambi politologi di vaglia. A 37 anni Elly ha quindi tre passaporti (svizzero, americani e italiano) e una laurea in diritto costituzionale (sui diritti degli stranieri in Italia) presso l’università di Bologna: cioè in uno degli hub storici del pensiero progressista italiano, fra tradizione marxista e cattolicesimo democratico. Non si è fatta mancare uno “stage” di lusso nello staff della campagna elettorale “seminale” di Barack Obama nel 2008.

Dichiaratamente bisessuale, nel suo carnet c’è ogni battaglia civile che gli avversari attribuiscono al “politicamente corretto”: compreso anche un giudizio negativo sulle politiche di Israele nei territori palestinesi. Più che una candidata reale alla guida di un Pd a serio rischio di scissione, Schlein appare un esperimento, quasi sicuramente non circoscritto all’Italia.

La laboriosissima exit dalle turbolenze avviate dalla pandemia e sfociate nella crisi geopolitica può condurre al consolidamento di un’élite transnazionale, forgiata dalla transizione digitale ma allevata nel credo Esg (tutela dell’ambiente, sviluppo sostenibile dell’economia sostenibile, governance come “democrazia 5.0”, inclusiva ma efficiente). In quel Mondo Nuovo – meno lontano di quanto si possa immaginare – Schlein sembra avere fin d’ora buone chance per essere “leader”: di quale “partito” e soprattutto di quali “istituzioni” non è però ancora dato sapere.

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