L’anno dell’automotive si chiude con l’ennesimo appello di Akio Toyoda, il numero uno di Toyota, che ha parlato di una maggioranza silenziosa all’interno del settore che si sta chiedendo se le auto elettriche siano davvero l’unica opzione possibile, ma non può esprimere questo concetto ad alta voce per non andare in controtendenza. Ma è un inutile fuoco di paglia, almeno per quanto riguarda l’Europa, dove in un mercato più ricco si vendono circa un quinto del totale delle auto. La strada del settore è segnata. Bisogna adattarsi. Muti, come dice Toyoda, anche di fronte alle contraddizioni, alle assurdità, al disastro. Bisogna guardare altrove nel mondo e nel Vecchio Continente, quando è possibile, metterci una pezza.
Il prossimo anno sarà quello in cui si metteranno a terra le strategie solo annunciate nel 2022 che nascono, sostanzialmente, da un unico concetto chiave: come fare più utili vendendo di meno. La corsa al fatturato è ormai un lontano ricordo: ora tutti – ma proprio tutti – i costruttori hanno nel mirino soltanto i margini di guadagno. E allora via alle idee per trovare nuovi business che, possibilmente, costino poco e abbiano ritorni significativi. Via alla ricerca spasmodica di start up innovative da comprare che possano essere integrate nel business. Via alle soluzioni borderline che prospettano rivoluzioni prossime venture. Chi ha le spalle abbastanza grosse pensa anche a far crescere la propria software house, chi le ha enormi progetta di mettere le mani sulla realizzazione delle batterie perché è in quei pacchi che sta tutto il valore delle nuove auto. Meglio vendere un centinaio di modifiche software che un’auto con batterie comprate da un fornitore esterno.
I prezzi, manco a dirlo, saliranno. Colpa dell’inflazione, dell’aumento delle materie prime, della penuria di microchip. Colpa, soprattutto, della necessità di fare cassa dei costruttori che da una parte, di fronte a un futuro quanto mai incerto, cercano di mettere fieno in cascina e dall’altra hanno bisogno della cassa per fare investimenti quanto mai incerti che le banche non finanziano volentieri.
Alcuni marchi premium come Jaguar e Mercedes hanno già annunciato che abbandoneranno le fasce medio basse del mercato. La casa inglese che produce anche Land Rover ha addirittura annunciato che a partire dal 2025 venderà solo supercar elettriche del valore di oltre 100 mila euro. Chi ha due marchi e un nome spendibile cerca di portarsi avanti, di fare esperimenti.
Smart, collegata a Mercedes, è già solo elettrica. Mini, del Gruppo Bmw, ha già una sorta di cronoprogramma che la porterà ad abbandonare ogni genere di motore termico prima della data del 2035 stabilita dall’Unione europea. Ci provano. Forse fanno finta di crederci davvero. La domanda non è «quante auto venderemo in meno» perché tutti danno per scontato un progressivo – ma inevitabile – crollo del mercato. Ma «come riesco a mantenere gli utili con un fatturato in compressione»?
Gli anelli deboli della catena sono i fornitori, tranne quelli di batterie, e i concessionari. I primi, già in estrema difficoltà per il cambio di tecnologia, dovranno farsi carico di una parte del rincaro dei prezzi delle materie prime e saranno le prime vittime a cadere. I secondi spariranno. O meglio: non saranno più imprenditori, ma semplici venditori a percentuale e non potranno più gestire i prezzi, che verranno stabiliti dai vertici delle case automobilistiche. In fondo alla catena ci saranno, come al solito, coloro che le auto le fabbricano materialmente, sia nelle catene di montaggio che nelle aziende fornitrici. I fermi alla produzione e i tagli dei dipendenti iniziati quest’anno proseguiranno anche se ci saranno microchip a vagoni.
Peccato che il Qatar non abbia speso un euro a Bruxelles per far cambiare idea a burocrati e politici europei. Ma forse loro, produttori di gas e petrolio, non avevano nessun interesse a farlo.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.