Il settore automotive in Italia non è morto, ma non si sente per niente bene. Negli ultimi due anni 7.000 dipendenti delle fabbriche Stellantis nel nostro Paese hanno lasciato il posto di lavoro e altri 1.800 li seguiranno nel 2023. Il Sole 24 Ore ha calcolato che la produzione del gruppo franco-americano e sempre meno italiano dovrebbe attestarsi attorno al milione di unità all’anno per essere sostenibile economicamente, ma rimane ferma sotto quota mezzo milione. Marchi storici come Alfa Romeo e Lancia, ridotti al lumicino in termini di prodotto, aspettano da anni un serio tentativo di rilancio che è sempre annunciato, ma non arriva mai. Le decisioni strategiche su quella che era un fiore all’occhiello dell’industria italiana si prendono in Francia senza badare troppo alle dinamiche dei Paesi dove opera.
L’industria componentistica, molto forte in Italia, si dibatte tra la necessità di continuare a lavorare sulle auto endotermiche che sono ancora la stragrande maggioranza delle immatricolazioni e quella di prepararsi all’inevitabile trasformazione verso la trazione elettrica. Il futuro per questo settore significa confrontarsi con clienti che hanno bisogno del 30% in meno di componenti, con parti meccaniche destinate a sparire e stime sugli effetti occupazionali che oscillano da 60 a 120 mila posti di lavoro persi. Infine, le vendite di automobili in Italia sono rimaste negli ultimi tre anni attorno – e due volte su tre molto sotto – quota 1,4 milioni. Immatricolazioni lontane da quelle dei tre anni precedenti che sfioravano i due milioni e lontanissime da quelle record del 2007 quando toccarono quasi 2,5 milioni. I prezzi medi delle auto nuove, secondo l’Istat, sono arrivati ai 26 mila euro, con un incremento del 44% in dieci anni e di oltre il 6% nell’ultimo. Troppo per la maggior parte degli automobilisti.
In questo scenario festeggiare le 149.411 vetture immatricolate a maggio in Italia significa guardare il dito e non Luna. Il miglioramento è legato alla maggior disponibilità di prodotto presso le reti di vendita e alla corsa dei costruttori per smaltire l’enorme stock di ordini arretrati. Senza contare l’effetto statistico della bassa base di confronto con il 2022. Siamo comunque lontano dai risultati del 2019 e, forse, non ci arriveremo mai più. C’è troppa confusione nel settore e tra i potenziali clienti tirati per la giacchetta sia dai politici, sia dalle case automobilistiche che, obtorto collo, alla fine hanno sposato la transizione elettrica convinti di poter fare comunque buoni affari con la sostituzione integrale del parco circolante europeo.
Siamo di fronte a un cambiamento epocale dei tradizionali paradigmi di mobilità personale con tutte le naturali conseguenze sul piano industriale e sociale che per ora riusciamo solo a immaginare. Imbroccare la strategia giusta non è affatto facile sia per i costruttori che per i fornitori. Ma una cosa è sicura: l’Italia che fino a qualche anno fa era uno dei protagonisti assoluti del settore, per tradizione e capacità professionali, sta, piano piano, finendo ai margini. Un vero peccato che pagheremo tutti.
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