Stando come oggi le cose, le case automobilistiche europee hanno due alternative. O trasferiscono tutta la produzione in Cina mettendo la testa sul ceppo del gruppo dirigente di Pechino o chiudono i battenti vendendo marchi e tecnologie al miglior offerente (cinese).

Nel 2022 la situazione era già abbastanza chiara. La Cina in sei anni era passata dal nono al primo posto tra i Paesi esportatori in Europa di automobili con oltre mezzo milione di vetture. Seguiva la Turchia (452 mila), la Gran Bretagna (441 mila), la Corea del Sud (411 mila), il Giappone (319 mila), il Marocco (329 mila), gli Stati Uniti (266 mila) e il Messico (181 mila). È chiaro a tutti che la produzione turca, inglese, marocchina è stata realizzata all’estero da marchi dell’Europa continentale, come almeno una parte quella americana dove gli unici costruttori che esportano nel Vecchio continente sono Ford e Tesla. Lo stesso discorso valeva per le importazioni in Europa delle auto Made in China perché i numeri di immatricolazione dei brand di Pechino era davvero risibile. Ma l’uso dei verbi al tempo imperfetto nella frase precedente è d’obbligo perché la grande offensiva è partita.



L’arrivo di Byd, uno dei più importanti marchi cinesi di automobili, ha segnato il punto di svolta. Cominceranno con le vetture elettriche di medio livello dove hanno un indubbio vantaggio tecnologico, ammesso anche dai concorrenti occidentali, e proseguiranno offrendo auto a basso costo in grado di motorizzare anche quella parte di popolazione che non è più in grado di sostenere l’acquisto di un’auto nuova. Difficile fare ipotesi sui numeri delle loro immatricolazioni in Europa nei prossimi anni, ma saranno grosse cifre. Tutto dipenderà da quanto sono disposti a spendere per lanciare le vetture, trovare punti vendita e dare una buona immagine al marchio. Dipenderà, poi, anche dal grado di soddisfazione che mostreranno i pionieri, i primi ad attraversare il guado e acquistare un veicolo, e la loro capacità di trasmettere valori positivi agli indecisi. Insomma, la sfida è costosa e non facile. Ma neanche tanto difficile visto che oggi le macchine sono batterie, motori elettrici e software, tre settori in cui la Cina non è seconda a nessuno.



In questo scenario, la scelta della Commissione europea di avviare un’indagine sui sussidi statali al settore automotive cinese è come cercare di fermare il crollo di una diga a mani nude. A Bruxelles la montagna partorirà un topolino perché ci sono troppi interessi, soprattutto tedeschi, in ballo. Nessun dazio e nessuna barriera, mentre il ridimensionamento dei costruttori europei avverrà, eccome. I sussidi statali e il controllo politico delle aziende, anche private, attuato dalle parti di Pechino erano noti da anni, come anche la politica di accaparramento delle materie prime necessarie per realizzare le batterie dei veicoli elettrici, o le condizioni di lavoro degli operai nelle fabbriche cinesi.



La Commissione e il Parlamento europeo, ma anche i Governi del Vecchio continente dovevano pensarci prima di togliere a un settore che occupa milioni di addetti un vantaggio competitivo (quello sui motori a scoppio) e darlo a un concorrente che non è abituato a fare prigionieri. Il danno ormai è fatto.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI