Mentre la conferenza Stato-Regioni ha dato il via libera al piano vaccini anti-Covid messo a punto da Domenico Arcuri e nella maggioranza si è continuato a discutere (senza Italia Viva) delle eventuali nuove restrizioni da adottare durante le festività, dall’Oms è stato rilanciato l’allarme sul rischio di una terza ondata di contagi in Europa all’inizio del 2021. Una terza ondata che avrebbe anche conseguenze economiche, come ricorda Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano: «Indubbiamente nel terzo trimestre dell’anno c’è stato un rimbalzo a V del Pil, in Europa e altrove. Con l’arrivo della seconda ondata, ovunque, il 2020 si chiuderà con un inevitabile rallentamento dell’economia. Il tentativo di trovare un equilibro tra dinamica produttiva e lotta al Covid al momento si è rivelato inefficace. Del resto i margini per raggiungere questo equilibrio sono stretti, soprattutto nelle società democratiche. Credo che l’anno prossimo non ci sarà un grande rimbalzo, non perché non ci sia il potenziale per realizzarlo, ma perché c’è il rischio di nuove ondate di contagi».



Sono però già iniziate, o stanno per iniziare, le campagne vaccinali…

Occorre realizzare una campagna vaccinale articolata, che richiede tempo. Solo dopo che si riuscirà a governare l’epidemia si riuscirà a ripartire. Nel 2021, quindi, non ci sarà una robusta ripresa.

Nel frattempo andranno quindi portate avanti le politiche monetarie espansive, anche per consentire agli Stati di aumentare il loro debito con cui sostenere l’economia?



Esattamente. Ovviamente prima o poi ci si dovrà chiedere se tutta questa liquidità genererà inflazione. Oggi, essendo l’indice dei prezzi tendente allo zero o in negativo, non ci si pone più di tanto il problema. I tassi di interesse sono quindi ai minimi storici, solo che la curva dei rendimenti dei titoli di Stato Usa a lunga scadenza, che rappresenta un robusto indicatore delle aspettative, si è recentemente innalzata, mentre in Europa resta piatta o va addirittura in negativo.

Questo cosa significa?

Di fatto c’è un clima di aspettative molto più favorevole negli Stati Uniti che in Europa. L’economia americana, in questa situazione, è, come dicono gli investitori, cheap. I capitali, anche quelli europei, stanno quindi andando verso gli Usa, sia perché, come detto, i rendimenti sono più alti, sia perché i rapporti price/earnings delle azioni sono favorevoli. Si sta creando una situazione in cui potrebbe esserci una forte divaricazione tra la politica economica e fiscale europea e quella americana.



Ci sarà questa forte divaricazione?

Molto dipende anche dai rapporti internazionali e purtroppo il quadro non appare favorevole per l’Europa. Certamente l’Amministrazione Biden non stenderà i tappeti rossi alla Cina, la quale sta facendo marcia indietro sulla Nuova Via della Seta, un progetto su cui Xi Jinping aveva puntato molto, e c’è l’impressione che per Pechino stia diventando centrale la Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), un accordo tra 15 Paesi asiatici, che rappresentano oltre un terzo del Pil mondiale. Si tratta di un accordo che non indica a priori una posizione conflittuale con gli Stati Uniti e che potrebbe rappresentare un problema per le esportazioni europee, quelle tedesche, e di conseguenza italiane, in particolare. C’è quindi da attendersi un rallentamento dei flussi commerciali dall’Europa verso l’Asia.

L’Europa non potrebbe a quel punto cercare di aumentare i flussi commerciali verso gli Stati Uniti?

Certamente Biden sarà più disponibile a fare accordi con l’area europea rispetto a Trump. Il problema è che l’euro si sta apprezzando nei confronti del dollaro e questo non aiuta l’export dell’Eurozona negli Usa.

Dunque l’Europa rischia di vedere scendere il proprio export sia verso l’Asia che verso gli Usa. Cosa dovrebbe fare a quel punto? Le basterebbe il Recovery fund?

L’Europa è una grande area economica, che oggi, per svilupparsi nella direzione giusta, deve operare come un’area federata. Non lo è, ma nulla vieta che possa comportarsi come se lo fosse. In parte sta già avvenendo con il Recovery fund. Anche i discorsi che in Italia si stanno facendo sulla cabina di regia hanno un fondamento, perché chi ha a che fare con l’Europa sa bene che se si presentano progetti deboli non vengono accettati.

Per andare nella direzione da lei auspicata non si può pensare però di ritornare a una politica fiscale determinata dalle regole del Patto di stabilità e crescita…

Assolutamente. Siamo in una fase in cui si deve riscrivere l’Europa. Se lo si fa in senso federale, allora essa diventa un interlocutore mondiale.

Bisogna però vincere le resistenze di quello che è il Paese guida dell’Europa, la Germania.

Certamente. È un processo in cui la leadership deve essere inevitabilmente tedesca. Dobbiamo riscrivere l’Europa e si può essere ottimisti se si pensa che sia la Merkel che la classe dirigente che le sta dietro accetta oggi argomenti che avrebbe completamente rifiutato anche solo 5 anni fa.

Quali argomenti?

La parola mutualizzazione fino a 5 anni fa faceva drizzare i capelli a tutti quanti, oggi no. Basta pensare al fatto che tramite il Recovery fund la si fa, anche se non lo si dice.

Deve essere però un processo rapido, non si possono aspettare, per fare un esempio, 5 anni…

No. E credo che la situazione mondiale possa essere d’aiuto. I tedeschi pensano molto e agiscono velocemente. Anche solo un anno fa non sarebbe stato ipotizzabile uno strumento come il Recovery fund, è stato lo shock del Covid a renderlo necessario, perché i virus non hanno frontiere. Il quadro geopolitico, geoeconomico spingerà quindi verso la direzione dell’essere federali.

(Lorenzo Torrisi)