Gli economisti sono sempre stati affascinati dalla possibilità di trovare un nesso fra causa ed effetto; in tempi complessi e confusi come quelli che stiamo vivendo, un’operazione del genere atterrisce chiunque abbia un minimo di buon senso. Per questo motivo, conviene mettere sul tavolo gli eventi più significativi e cercare di ragionare sulle loro possibili connessioni.



Partendo da questo assunto, possiamo provare a inserire in un possibile e parziale frame alcuni eventi che hanno caratterizzato le vicende dell’economia cinese nelle ultime settimane.

La dichiarazione del presidente Xi Jinping circa la necessità di “regolamentare i redditi eccessivamente alti”, i dubbi sempre più grandi su crescita del Pil e solvibilità del debito, l’avanzata della variante delta, il blocco dei principali hub portuali, la crisi del colossi del FinTech, la fame di dollari delle imprese, lo spettro dell’inflazione e il fatto che siano bastate voci su un possibile tapering operato dalla Fed per causare un brusco calo delle borse asiatiche, sono dei dati che, oltre a farci immaginare un autunno alquanto movimentato e all’insegna dell’incertezza, ci restituiscono un quadro che per essere compreso deve essere colto nella sua interezza.



Non è elegante citarsi, ma in questo caso può essere utile per ricostruire la dinamica del processo di trasformazione dell’economia e della società cinese. Dopo la fase di espansione incontrollata che ha avuto come protagonisti i colossi del FinTech e la fame di liquidità dei consumatori cinesi, si è aperta una complessiva ristrutturazione dell’economia cinese che ci sembra soprattutto di natura finanziaria. Avevamo detto che l’enorme immissione di dollari operata dalla Fed nell’economia globale sarebbe stato un grande problema anche per una economia export led come quella cinese. Inoltre, avevamo preannunciato l’inizio di una politica fiscale restrittiva, fatta per ridare al sistema finanziario la credibilità e la stabilità che i salvataggi recenti e la crescita del debito avevano messo a repentaglio.



Benché dalle nostre parti le dichiarazioni di Xi abbiano suscitato l’entusiasmo del partito filo-cinese tanto da immaginare l’inizio di una battaglia di stampo neo-maoista contro le differenze sociali, riteniamo che in realtà per Pechino sia in gioco la credibilità del sistema finanziario e quindi la sua capacità di attrarre capitali stranieri. Anche per questo motivo risulta interessante riflettere sul rapporto ambiguo che la Cina intrattiene con il dollaro.

Come ha fatto notare Gianluca Zapponini, benché la Cina abbia avviato la sfida globale al dollaro attraverso il varo dello yuan digitale, le imprese cinesi iniziano ad emettere obbligazioni in dollari, come testimonia il recente caso Baidu, che si è affidata a Bank of America e Goldman Sachs. Inoltre, l’apprezzamento del dollaro che si registra da giugno sembra essere la conseguenza delle sempre maggiori incertezze sulla crescita cinese dovute all’avanzata della variante delta e all’inflazione sopra le attese. A tale riguardo va ricordato che a inizio agosto JP Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley avevano rivisto al ribasso le previsioni di crescita del Pil per il resto del 2021.

In definitiva, il dollaro sembra essere tornato di moda. Una situazione paradossale, in cui il rischio di insolvenza e l’incertezza circa la stabilità finanziaria aumentano la fame di dollari, mentre l’economia reale paga l’aumento dell’inflazione, il crescente livello di indebitamento dei consumatori e lo stato critico dei maggiori porti in cui giacciono le merci da esportare.

Alla luce di questi dati, dietro le dichiarazioni di Xi sembra in realtà celarsi il rischio che saranno le famiglie cinesi a pagare per il salvataggio dei colossi del FinTech e fornire una base più solida all’economia. Chiudendo ogni rapporto con la fase in cui arricchirsi era ritenuta una cosa gloriosa, e quindi con l’eredità di Deng Xiaoping, la Cina di Xi si avvia a una complessiva ristrutturazione della propria società, in cui il socialismo di mercato che ha alimentato, fra contraddizioni e successi, la fase di espansione si avvia a divenire qualcosa di diverso. Un’economia in cui le virtù del mercato, che nel caso cinese aveva funto da motore dell’apertura della società cinese e della sua democratizzazione, verranno sostituite dal crescente peso di monopoli sempre più legati alla Banca Popolare Cinese e quindi allo Stato, che garantendo la solvibilità del sistema gli permetterà di attirare investitori stranieri.

Detto in altri termini, parliamo del trionfo di quello che Alessandro Aresu chiama, con una fortunata concettualizzazione, il capitalismo politico. Una strategia che dipende più che nei paesi occidentali dall’operato della Banca centrale, che recentemente ha immesso nel sistema 92 miliardi di dollari. Un quadro in cui la fiducia nel sistema Cina risulta messa in dubbio da speculazioni alimentate da voci su tagli ai tassi d’interesse, inflazione, debito fuori controllo e rallentamento del sistema produttivo. Fattori che alimentano una crisi di fiducia a cui il governo cinese risponderà mostrandosi forte, e a farne le spese saranno i suoi cittadini e chi nell’Indo-Pacifico si troverà a fronteggiare le aspirazioni di Pechino.

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