Gli USA restano un punto di riferimento in Medio Oriente, ma intanto le nazioni dell’area, o almeno alcune di loro, aprono anche a Pechino, come dimostra l’incontro di Xi Jinping con diversi capi di Stato in occasione del Forum tra Cina e Paesi arabi. Biden è stato sbugiardato dalla CNN: le munizioni americane vengono tuttora utilizzate dall’IDF a Rafah, anche nell’attacco alla tendopoli degli sfollati che ha causato 45 morti, a riprova del fatto che, nonostante le dichiarazioni del presidente su una presunta sospensione dell’invio delle armi, gli Stati Uniti continueranno a sostenere Israele, lasciando così spazio per un’iniziativa di Pechino con gli altri Paesi della regione.
Nel governo Netanyahu, d’altra parte, c’è chi, come Smotrich, vorrebbe comportarsi in Cisgiordania come a Gaza, e senza un’opposizione americana che non sia solo a parole c’è da temere che questi programmi vengano realizzati. Ma così, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, alla fine della guerra Israele si ritroverà ancora più lacerato: da una parte i coloni armati che vogliono occupare i territori palestinesi e dall’altra il Paese dell’hi-tech e della modernità. Intanto, visto che il governo Netanyahu nessuno lo scalza, l’IDF continuerà a bombardare Rafah, magari poi rivolgendosi alla West Bank.
I capi di Stato di Egitto, Bahrein, Emirati Arabi e Tunisia in visita in Cina da Xi Jinping: l’appoggio a Israele sta costando agli USA l’allontanamento dei Paesi arabi e il loro avvicinamento a Pechino?
Sta cambiando qualcosa, ma senza esagerare. L’Egitto, a parte l’Ucraina, dopo Israele è il Paese al mondo che riceve più armi dagli americani. Gli USA continuano a essere gli unici che possono costringere Israele ad accettare uno Stato palestinese, non ci riescono solo perché in questo momento c’è la campagna elettorale. Restano, comunque, i protagonisti della regione. I cinesi non hanno mai voluto avere a che fare con il Medio Oriente perché è difficile da gestire, significa dover affrontare una crisi dopo l’altra, e si finisce per non uscirne mai bene. Il Medio Oriente, però, è il principale fornitore di energia per sviluppare la loro economia. Detto questo, visto che l’America è incerta, alzano un po’ il livello del loro ruolo nell’area. Tutti vedono che gli USA hanno un doppio standard, uno per l’Ucraina e uno per Israele. La CNN ha scoperto che Tel Aviv sta usando ancora le bombe americane per attaccare Rafah. Gli spazi per agire, insomma, ci sono e la Cina cerca di inserirsi. Non credo più di tanto: diventare protagonisti in quest’area porta solo problemi.
L’obiettivo di questo incontro in Cina con gli arabi allora quale può essere?
I Paesi arabi, alla luce di questo doppio standard americano, puntano ad avere un interlocutore in più. Il mondo è complicato: ci sono il G7, l’alleanza Russia-Cina, il Global South, ma tutti sono d’accordo nell’aprire un dialogo per creare uno Stato palestinese. A parte l’India, antimusulmana quanto gli israeliani, il resto del mondo lo vuole. In questo quadro ci sono possibili aperture, come quelle che portano all’incontro tra Cina e Stati arabi.
Per gli USA tutto questo è comunque un campanello d’allarme per la loro presenza nella regione?
Sì e no. Sono troppo focalizzati sulla campagna elettorale. Appena Biden ha detto “Sospendiamo l’invio di bombe a Israele”, subito i repubblicani hanno cavalcato questo tema. Il ruolo degli USA rimane importante, anche se vorrebbero impegnarsi di meno nella regione. Senza Israele di mezzo lo farebbero subito. La priorità per loro in questo secolo è e sarà la Cina, l’Estremo Oriente, il confronto con Pechino.
Il ministro israeliano Bezalel Smotrich ha dichiarato che bisogna dare seguito alla repressione in modo deciso anche in Cisgiordania, a costo di far diventare Tulkarem come Gaza. A lungo andare questo continuo innalzamento del livello di violenza da parte di Israele non può danneggiare anche gli USA come loro principale alleato?
Già l’anno scorso, prima della guerra, in Cisgiordania c’erano stati il doppio dei morti rispetto agli anni precedenti. Ma è un problema soprattutto israeliano, non degli USA. Quando finirà questa guerra, Israele si troverà di fronte a uno scontro civile interno molto pesante, fra coloro che armano i coloni e l’Israele dell’hi-tech, quello moderno. Non credo che tutto questo danneggerà gli USA nella regione, neppure dal punto di vista della campagna elettorale: al di là della lobby ebraica, la maggioranza dell’elettorato americano non è come quello europeo, è molto più filoisraeliano.
A Biden conviene di più sostenere Israele che non ascoltare le critiche dei musulmani del Michigan?
L’opinione pubblica statunitense è molto favorevole a Israele, che per gli americani è una questione di politica interna. E poi dalla fine della guerra fredda non si elegge un presidente USA sulla base della politica estera, quello che conta è l’economia. Il problema principale di Biden non è Gaza, è che l’economia cresce, i posti di lavoro aumentano, ma gli americani non guadagnano abbastanza per sentire la crescita, almeno secondo i sondaggi. La comunità araba americana è la metà di quella ebraica ed è di gran lunga più povera e meno influente.
Le proteste nelle università, quindi, non sono condivise dalla maggioranza degli elettori?
Si tratta di minoranze, come durante la guerra in Vietnam: gli studenti manifestavano nelle università ma poi le elezioni le ha vinte Nixon.
L’Algeria, intanto, propone una risoluzione ONU per mettere fine alle operazioni militari a Rafah, per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Questo tipo di pressioni internazionali a questo punto servono ancora a qualcosa?
Sono atti dovuti, più di due terzi dei Paesi dell’ONU hanno votato a favore del diritto della Palestina di essere Stato membro. Ma il presidente degli USA lo eleggeranno gli americani e gli israeliani non terranno conto di un’eventuale risoluzione.
Yair Golan, ex vicecapo delle forze di difesa israeliane, ha vinto le primarie del partito laburista e ha promesso di unificare la sinistra. Dice che il governo di Netanyahu è una macchia nella storia ebraica e che bisogna riconciliarsi con i palestinesi. C’è qualcuno in Israele che può percorrere questa strada?
È un ex generale che il 7 ottobre è andato al sud a combattere salvando diverse vite. Il partito laburista era morto prima di lui. L’importante è che Gantz, Lapid e ora Golan costituiscano un fronte unito. C’è bisogno di portare via voti al Likud mentre lui come laburista potrà, appunto, unificare la sinistra. Quando c’è un ex militare che si dà alla politica è sempre un bene, perché la gente ha più fiducia in loro che nei “politici-politici”: basti pensare a Rabin, Barak, Sharon. Shimon Peres non ha mai vinto un’elezione sebbene fosse un grande uomo politico. L’importante è che questo fronte sia compatto il giorno in cui si voterà di nuovo in Israele. E che accetti ciò che la comunità internazionale vuole: che si riapra il dialogo per uno Stato palestinese. Anche nel centrosinistra israeliano non è che tutti siano favorevoli a questo.
Nel frattempo Israele continuerà ad attaccare a Rafah e anche in Cisgiordania?
Sotto questo aspetto non si fermeranno, saranno sempre più isolati dal mondo, ma non cambieranno linea. A governare ci sono sempre le stesse persone.
(Paolo Rossetti)
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