Il voto di domenica 26 maggio non ha consegnato solo un’Europa divisa tra sovranisti e populisti. E il discorso sulle nuove prospettive del Vecchio continente non si riduce alle diatribe sui nuovi organismi o alla pur importante ridefinizione delle nuove regole. In un’epoca caratterizzata dalla competizione tra grandi blocchi, nonchè dall’affermarsi e diffondersi sempre più tumultuoso delle nuove tecnologie, l’Europa è chiamata ad affrontare, da subito, una grande sfida, che “riguarda la nuova classe dirigente europeista di cui abbiamo necessità”. È il giudizio sul voto europeo che suggerisce Amedeo Lepore, professore di storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”: “Non basta più governare l’esistente, occorre pensare come tenere insieme politiche attente, accorte, che non tollerino sprechi e al tempo stesso politiche espansive di crescita. Pur vedendo il livello di difficoltà di questa sfida e l’arretramento economico e in alcuni casi anche culturale della nostra società, non mancano segnali di formazioni sociali o di eccellenze economiche, anche in Italia, che in modo spontaneo si stanno muovendo e crescendo. Il tema dirimente è che tutte queste realtà puntiformi possono estinguersi se non c’è un percorso in cui aggregarsi. Bisogna invece metterle a sistema, perché c’è un terreno molto fertile. Non si potrà fare immediatamente, sapendo che sarà un lavoro duro e di lunga lena. Ma che va iniziato subito”.



L’Europa uscita dalle urne appare però ancor più divisa e frammentata, non crede?

Le elezioni europee sono la rappresentazione di un contesto che sta scavando nel profondo le comunità e i Paesi che aderiscono all’Unione Europea. Ma il risultato, pur davanti a una pesante ipoteca dei sovranismi e populismi, è come una prova d’appello per le forze che guardano all’Europa come fondamentale orizzonte in cui poi inserire le politiche e le scelte nazionali. Le forze europeiste devono saper guardare ai rischi, alle preoccupazioni e anche alla frammentazione della Ue, che non è solo espressa dai singoli Stati nazionali, ma che è nella società e nell’economia europea, con la capacità e il coraggio di interpretare una trasformazione sempre più necessaria. È una sfida che va affrontata come sfida globale.



In che senso?

Oggi assistiamo a una fortissima competizione, soprattutto di carattere tecnologico, tra le grandi potenze mondiali. E in questa competizione, se l’Europa non adotterà le scelte rapidamente, rischia di soccombere.

Perché?

L’Europa è insieme agli Usa il più grande mercato mondiale, nonostante trend di crescita lentissimi, addirittura stagnanti in alcuni Paesi, dell’economia produttiva. Ma la Ue conserva ancora una base di ricchezza molto consistente. Ed è una parte del mondo in cui resistono tre elementi da non sottovalutare.

Quali?

L’Europa è, innanzitutto, la patria di quello che si chiamava lo stato del benessere, attraverso una serie di strumenti che tendono ad attenuare le diseguaglianze, pur dovendoli oggi reinterpretare e rinnovare profondamente. È, poi, il luogo in cui la conoscenza, scientifica e non solo, mantiene un radicamento molto forte. Già Salvemini ammoniva come fosse necessario tenere in stretto collegamento le scienze pure con le scienze sociali e l’Europa è l’unica parte del mondo in cui non siamo soccombenti alla logica dei soli algoritmi.



E il terzo elemento fondamentale?

Siamo un territorio nel quale c’è ancora un livello di produzione molto alto e – le due cose vanno connesse – c’è ancora una traccia, nonostante logiche mercatiste e Washington consensus abbiano trovato spazio, lasciando parecchie macerie, anche in Europa, di politiche di intervento pubblico, non sostitutivo dell’intervento privato. A tutto questo, aggiungerei che in Europa libertà, democrazia rappresentativa e dei corpi intermedi restano valori fondanti. Pur in presenza di urgenti problemi legati allo sviluppo delle economie, la consapevolezza di poter contare ancora su questi tre grandi pilastri dovrebbe suscitare un forte impulso alla ricostruzione di una nuova Europa.

Ma l’Europa, in uno scenario caratterizzato da grandi blocchi a loro aggressivi, non sta perdendo un po’ di centralità?

L’intera Europa, e non solo l’Italia, rischia di essere residuale, perché i problemi si pongono anche per Germania, Francia e drammaticamente Gran Bretagna dopo la scelta scellerata della Brexit. Ovunque si pone, anche per i leader, il problema di comprendere che la strada non è quella del ritirarsi e del chiudersi: per affrontare le sfide che arrivano da Est e da Ovest bisogna ricostruire una dimensione europea più larga di quella tradizionale.

Che cosa significa?

Bisogna pensare a uno sviluppo euro-mediterraneo. Il Mediterraneo è tornato a essere il centro dei traffici mondiali, è una zona baricentrica, sia dal punto di vista geopolitico che della logistica. L’Europa deve rendersene conto e andare oltre i suoi tradizionali confini, aprendosi a un confronto con Africa e Medio Oriente in una chiave di nuova globalizzazione. Solo imboccando questa strada c’è la possibilità di entrare nuovamente in campo da protagonisti, giocando anche un ruolo di dialogo a Est con la Cina e a Ovest con gli Stati Uniti, non necessariamente sottomettendosi a una di queste due superpotenze. Occorre però un salto in avanti tecnologico e di valori.

Partiamo dalla Cina. Con il controverso e dibattuto progetto della Nuova Via della Seta sta bussando alle porte dell’Europa. Ma, secondo lei, Pechino sta coltivando un disegno egemonico anche sul nostro continente?

Gli imperi hanno sempre avuto due modalità di dominio: politica ed economica, non sempre sovrapposte. La Cina con la sua grande forza espansiva, prima demografica e poi economica e produttiva, punta a conquistare altri mercati. Non si tratta tanto di avere paura della Cina o di accettare supinamente ciò che impone, anche perché la dipendenza porta sempre problemi seri, come vediamo adesso in Africa e in Asia con la trappola del debito. La forza dell’Europa sta nel non agire isolatamente, ciascun Paese per conto proprio, come purtroppo sta avvenendo, ma nel costruire una prospettiva comune. Ma una sottolineatura è importante.

Prego.

La Nuova Via della Seta consente di creare connessioni, ma le vie logistiche devono essere assolutamente biunivoche. E per riempirle di contenuti occorre che l’Europa sappia cogliere in fretta la sfida tecnologica e quella produttiva. Su questo fronte, anzi, vedo già segnali importanti, come il Patto tra produttori, nato in Italia ma che sta cominciando a estendersi anche ad altre forze produttive europee: è un’esperienza di collaborazione tra forze sociali che può ridare nerbo e vitalità all’economia europea e alle sue prospettive.

Guardando invece a Ovest, dopo l’elezione di Donald Trump l’asse atlantico si è sfilacciato sempre più. Come si può riannodare questo filo?

Prima ancora di riprendere un dialogo occorre ricostruire le basi per una consistenza europea ed euro-mediterranea. Senza una logica unitaria e una dimensione in grado di competere e al tempo stesso di dialogare, è difficile riannodare quel filo. Ci sono, certamente, errori di visione commessi da entrambi i lati. Gli Stati Uniti hanno una visione autoreferenziale e autocentrica che alla lunga rischia di indebolirli, anche in un prossimo confronto con la Cina. L’Europa, a sua volta, non può più pensare che i problemi siano solo nella competizione interna, nel dirimere chi guida il processo europeo. Il tema vero è che occorre ricostruire interessi reciproci che possano valere in un’Europa nuova, diversa. Lo ha sottolineato anche il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco,  nelle sue Considerazioni finali, non risparmiando critiche per la mancata evoluzione del progetto di costruzione europea e per l’inadeguatezza della governance economica dell’area euro.

All’Europa serviranno anche una politica estera e di difesa comuni? Questi sono temi che non potranno essere lasciati sulle spalle solo di Germania e Francia?

Il problema non può certo stare sulle spalle di chi inizia un percorso, perché dipende molto da come lo si interpreta. Se è un percorso che tende a creare aggregazioni, poco importa come lo si cominci. Se invece è un discorso bilaterale e tale rimane, allora non ha molta strada da percorrere. Politica estera e difesa comuni sono temi delicati, al pari di politica fiscale, unione bancaria e prospettiva politica dell’Europa: qui ci sono praterie enormi da percorrere, seguendo però una logica diversa. S’impone, insomma, il problema di far crescere nuove classi dirigenti. Non ci si può affidare, anche nello schieramento europeista, alle forze che hanno dimostrato di non essere in grado di corrispondere ai valori dei padri fondatori e ai valori necessari a una profonda innovazione della prospettiva europeista. È una sfida per tutti.

(Marco Biscella)