Siamo arrivati ad una settimana dal primo voto per il rinnovo della presidenza della Repubblica e il dibattito pubblico oscilla tra chi propone di forzare il nome di Mattarella (M5s e parte del Pd) e chi propone il nome di Berlusconi (il centrodestra più o meno unito). Entrambi gli schieramenti vorrebbero comunque il rispetto di due condizioni: la prima riguarda la guida del governo centrale, per la quale vorrebbero la continuità di Draghi, e l’altra è la conclusione della legislatura alla sua scadenza naturale nel 2023.



Non credo che entrambi i due schieramenti siano sinceri; anzi, il sospetto è che chi agita il nome di Mattarella al momento lo faccia perché non ha o non può avere il nome di un candidato da offrire alle controparti; mentre chi spende parole più o meno sincere su Berlusconi, lo fa sapendo che comunque il candidato è inviso al resto del Parlamento e a parte dello stesso centrodestra, e che qualsivoglia campagna acquisti dal gruppo misto, persino la più costosa, sarebbe inutile, perché i franchi tiratori sono già stati appostati e sono pronti a sparare.



Tutto questo può favorire un’intesa sul nome del presidente della Repubblica?

È ancora troppo presto per dirlo. Vero è che, per ottenere tutto ciò che si ripromettono i partiti, l’intesa dovrebbe avere di mira non solo il nome del capo dello Stato, ma anche quello del presidente del Consiglio e la formazione di una maggioranza che continui la legislatura e, last but not least, un accordo sulla legge elettorale con cui votare nel 2023.

Il problema con cui non sembrano fare i conti i leader di partito è se tutto questo si possa ottenere senza tenere conto della personalità di Mario Draghi, al quale vorrebbero appioppare un compito silenzioso di continuità nella gestione della pandemia e del Pnrr e soprattutto quello di spendere la sua credibilità, permettendo il loro più o meno silente ritorno.



Se ci giriamo indietro vediamo chiaramente che questa legislatura è stata variegata e ha provato composizioni diverse di maggioranza e molteplici forme di collaborazione, ma ha esaurito da tempo la sua capacità di elaborare coalizioni di governo.

Quello che è accaduto a gennaio dello scorso anno avrebbe richiesto, anche per opportunità costituzionale, lo scioglimento anticipato delle Camere e il ritorno alle urne. La pandemia ha spinto Mattarella ad assumere la reggenza dello Stato e ad attribuire i poteri di governo a Draghi, condizionando all’obbedienza i partiti politici; e Draghi è stato così accorto da inventare una forma mista di governo che ha evitato ai partiti una cocente umiliazione come accadde nel 2011 con Mario Monti.

Valutando quanto accaduto nel corso dell’anno, la gestione Draghi non è andata affatto male: ripresa dell’immagine internazionale ed europea; ottimi risultati nella vaccinazione; Pnrr presentato e accettato dalla Commissione e primi soldi del Pnrr già arrivati; crescita del Pil + 6,4%. Insomma, l’intero Paese ha tirato un sospiro di sollievo e anche la quarta ondata, per quanto abbia dato luogo ad una certa fibrillazione politica, è stata governata con un certo stile.

Ed ora i partiti ricambiano tanta generosità di Mario Draghi con tanta indifferenza?

Questa sottostima del presidente del Consiglio è un palese errore; viceversa, se non è tale, nasconde un sottile gioco tattico.

Intendiamoci, in questo anno appena trascorso i partiti politici italiani non sono affatto cambiati e, se ritornano, sono nella stessa penosa condizione in cui li abbiamo conosciuti negli ultimi dieci anni, nonostante il nuovo aplomb dei 5 Stelle, l’arrivo di Letta alla guida del Pd e la confusa leadership del centrodestra. In particolare, la distanza tra i partiti e i cittadini elettori è aumentata e, per di più i partiti la vorrebbero ancora maggiore con la loro domanda di una legge elettorale proporzionale in modo da consentire loro i soliti giochetti di Palazzo.

Anche la burocrazia di cui poco si sa, ma che comanda tanto, è la stessa. Questa ha lavorato nel solito modo anche durante questo anno impedendo o rallentando qualsivoglia forma o tentativo di velocizzare le procedure, di salvaguardare gli interessi generali e di soddisfare le aspettative dei cittadini. Le questioni più stringenti, concernenti l’ambiente, l’energia, la sanità, il divario territoriale, la scuola e la ricerca, la giustizia, ecc. sono tutte là, senza un segnale nuovo. I ministri cosiddetti “tecnici” sono stati tutti paralizzati dalla rispettiva burocrazia, risultando persino più inconcludenti dei ministri “politici”.

Draghi perciò, in parte, ha coperto i limiti dei partiti e della burocrazia e, in parte, ha fatto a meno di loro.

Pensare di metterlo da parte o di dargli un ruolo meramente esecutivo, con l’intento di riprendersi la scena politica, decidendo un qualche presidente della Repubblica (con tutto il rispetto per l’uomo o la donna che verrebbe eletto/a), costituisce un errore eclatante dei leader politici che potrebbero essere travolti come niente dall’ondata di questa “politica liquida”.

Infatti, una figura come Draghi che ha ricoperto il ruolo di presidente del Consiglio in una situazione estrema e nei modi che sappiamo, non potrebbe accettare di rimanere in questo posto se i partiti pretendono di ritornare mettendo i piedi nel piatto.

Un attimo dopo, perciò, l’immagine politica dell’Italia tornerebbe di nuovo quella di sempre: inaffidabile, inconcludente e incomprensibile. Il potere della burocrazia e dei magistrati sarebbe ripristinato, per cui si avvierebbe una nuova paralisi generale delle attività pubbliche.

A ciò bisognerebbe aggiungere che, come sempre, la parte politica che vincerebbe in questa impresa, vorrebbe stravincere, per cui si andrebbe al voto quasi subito, interrompendo la legislatura cui tanti parlamentari tengono per il proprio personale interesse, e anche il Pnrr andrebbe a farsi benedire.

Il sottile gioco tattico sarebbe quello di lasciare intatte le posizioni di vertice dello Stato, come ho più volte scritto dalle colonne di questo giornale, ben oltre il 2023. Mattarella e Draghi sono due patrioti e ai patrioti si possono chiedere sacrifici anche contro la loro volontà o, meglio, la loro voglia. Non si dimentichi, poi, che il Pnrr prevede spese sino a metà del 2026 e, soprattutto, che nessuno sa se il nuovo Parlamento italiano, quello con meno di un terzo degli attuali parlamentari, sarà in grado di funzionare e come. Su quest’ultima incognita nessuno ha azzardato pronostici e gli accenni fatti sono in genere infausti, per cui la presenza di due figure come Mattarella e Draghi potrebbe garantire un comodo assestamento della democrazia italiana e una riforma del funzionamento dell’istituto parlamentare.

Oltre al principio “squadra che vince non si tocca”, potrebbe esserci un piano B, con buona pace delle aspettative, più o meno fondate, di Berlusconi. Infatti, l’unico piano B possibile è quello che utilizza comunque al massimo l’immagine di Mario Draghi, elevandolo alla posizione di capo dello Stato, come peraltro sembra volere la maggioranza dei cittadini. Anche questa ipotesi è stata messa in campo, sia pure per un attimo, da parte di Giancarlo Giorgetti e, ubbidendo a certe tendenze costituzionali che nei momenti di crisi si sono manifestate nella storia repubblicana, consentirebbe all’immagine di Draghi di continuare a dispiegarsi nelle relazioni internazionali e di esercitare una certa influenza anche in quelle interne. Poi, se i partiti vogliono concludere la legislatura, non dovrebbero fare altro che affidarsi alla cura del nuovo presidente della Repubblica, sperando di migliorare nel frattempo il loro standard di qualità.

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