L’obiezione-rifiuto opposta da Mattarella alla richiesta di incontro da parte del ministro della Giustizia Nordio è apparsa in sé ineccepibile. La lettera costituzionale di una Repubblica parlamentare è chiara nell’individuare poteri e responsabilità nella democrazia istituzionale. Una riforma (come quella della giustizia, all’approdo) è di totale responsabilità politica dell’intero governo (non di un singolo ministro) quando viene presentata alle Camere; e ad essa si aggiunge l’accountability del Parlamento quando  il testo viene approvato e inviato al Presidente della Repubblica per la promulgazione. Quest’ultimo – garante finale della legalità nello Stato – se lo ritiene può rinviare il testo alle Camere “con messaggio motivato per chiedere una nuova deliberazione”.



La mossa di Nordio (del governo di Giorgia Meloni) e la contromossa di Sergio Mattarella (compresa la firma in extremis delle norme sull’abuso d’ufficio) maturano tuttavia in un contesto politico-istituzionale reso di massima complessità dal progetto di premierato, che mette direttamente in discussione l’equilibrio dei poteri fra Presidenza, potere legislativo ed esecutivo. E la riforma della giustizia investe frontalmente il terzo grande potere costituzionale, quello giudiziario. Senza dimenticare che al Quirinale fanno capo anche la presidenza del Csm (l’organo di autogoverno della magistratura) e un sostanziale “patronage” della Corte Costituzionale (a sua volta dotata di poteri rilevanti nell’iter materiale delle leggi).



Su questo sfondo il richiamo di Mattarella al rispetto dei ruoli è formalmente incontestabile, ma non è certo privo di implicazioni politiche, tutt’altro che scontate (compreso il non banale braccio di ferro finale sull’abuso d’ufficio). Il Capo dello Stato ha avuto buon gioco nel farsi scudo di una Costituzione parlamentarista per respingere coinvolgimenti diretti di esponenti del governo – certamente impropri – in un processo legislativo di primo livello. Ed è comprensibile che voglia difendere per questa via il merito delle prerogative sue (le “mani libere” sul rinvio di ogni provvedimento), della “sua” magistratura (spina nel fianco di ogni governo) e della “sua” Consulta, tutte messe in gioco dal premierato.



Tutto questo avviene peraltro soltanto pochi mesi dopo un episodio di segno opposto. All’indomani dei “manganelli di Pisa” contro gli studenti filopalestinesi fu il Quirinale a intervenire direttamente sul ministro dell’Interno per censurare e fermare pubblicamente l’azione delle forze dell’ordine (con la premier in missione in Ucraina e alla vigilia del voto amministrativo in Sardegna). E quell’intervento non è stato privo di riflessi neppure su un fronte primario della politica estera: in Italia – a differenza anzitutto degli Usa – le proteste anti-israeliane nelle università sono proseguite indisturbate per mesi (sempre sul filo dei sospetti di antisemitismo) mentre la posizione ufficiale del governo italiano dopo il massacro del 7 ottobre è sempre stata di supporto netto a Gerusalemme.

Ma è stato solo l’ultimo episodio di una progressiva instaurazione in Italia di un semi-presidenzialismo di fatto che ha avuto i suoi passaggi più importanti ed emblematici nella rimozione forzata del premier Silvio Berlusconi da parte di Giorgio Napolitano nel 2011 e poi nel “ribaltone” del 2019, in un agosto di intenso lavoro anzitutto per Mattarella.

È su questa onda lunga che ormai è diventata abitudine politico-mediatica subordinare ogni atto legislativo o amministrativo del governo al vaglio ultimo (di merito) del Quirinale in fase di promulga; oppure successivo da parte della Consulta (sulla cui composizione il Presidente della Repubblica è dominus).

Ancor più in concreto, l’occupazione a tempo indeterminato del Quirinale da parte del Pd (a dispetto di una costante minoritarietà elettorale) ha finiti per trasformare il “semipresidenzialismo di fatto” italiano in una sorta di “coabitazione” alla francese fra il centrodestra (vincitore netto delle elezioni 2008 e poi di nuovo nel 2022 dopo una lunga sequela di premier non eletti e di “governi del Presidente”) e un Quirinale in veste ufficiosa di “contropotere democratico” (contro tutti i “populismi”, “le destre”, le “forze anti-europee”, reali ma soprattutto pregiudizialmente narrate come tali).

È per correggere questa “riforma costituzionale di fatto” (ben più incisiva di quella proposta dal Pd nel 2016 e bocciata da un referendum popolare) che la nuova maggioranza ha messo subito sul tavolo il progetto di premierato. E il “caso Nordio” è verosimilmente una mano di una partita che promette di essere ancora lunga e complessa. Forse con un pizzico di provocazione da parte del governo – ma non a freddo – peraltro abilmente parata da Mattarella. Ma al prezzo di un mezzo passo indietro – forse meglio: “del cavallo” – dall’opaco semipresidenzialismo italiano. Mentre quello francese – archetipico, ritagliato a metà del secolo scorso addosso a un generale nato nel secolo precedente – sta mostrando i suoi limiti evidenti come algoritmo di una democrazia del G7, alla prima boa del secolo ventunesimo.

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