Manca una regia, manca una strategia e ci sono troppi nomi. A due mesi dalla elezione del capo dello Stato, forse la più delicata e importante dal dopoguerra, il parlamento pare vagare nel vuoto. Mai il presidente è stato così importante, mai così incerto.

Ma andiamo nel dettaglio.

È l’elezione più importante perché mai come adesso il paese ha un quadro interno ed esterno estremamente incerto e instabile. All’interno non c’è un partito di maggioranza relativa, ma ce ne sono ben quattro tutti a pari merito intorno al 20% dei consensi. Il restante 20% è diviso in partiti e partitini che avranno vita o meno a seconda della legge elettorale da approvare. L’equidistanza tra i quattro da 20 impedisce un doppio vincolo.



Nessuno di loro vuole spinte verso un maggioritario che potrebbe avvantaggiare un concorrente, e nessuno vuole andare verso un proporzionale più puro che aumenterebbe le pulsioni frazioniste all’interno di ogni formazione.

Nessuno di questi partiti sembra avere una visione di ampio respiro sul paese, e tutti sembrano affogati in mille tatticismi. La loro difficoltà è accentuata dal fatto che per uscire dal Covid e gestire il Pnrr l’attuale capo dello Stato ha chiamato al governo un esterno, Mario Draghi, e varato un governo di “unità nazionale”.



La situazione all’esterno non è migliore, anzi. Infatti, il vertice virtuale tra i presidenti americano e cinese Joe Biden e Xi Jinping di lunedì ha sancito l’esistenza di un conflitto che i due si sono impegnati a controllare e non far degenerare in una guerra calda. Quindi l’ombra di una guerra calda è reale e per questo va evitata, perché ancora più che nella prima guerra fredda la minaccia di distruzione totale è vera.

Cosa pensa l’Italia di questo? Cosa vuole fare? Non ci sono idee o proposte reali. Solo, nel migliore dei casi, chiacchiere vuote. Né i politici le cercano tra gli esperti e questo aggiunge confusione a confusione, perché l’orizzonte internazionale può essere ignorato solo a proprio rischio e pericolo.



In più in questa situazione manca un regista dell’elezione del presidente della Repubblica, un kingmaker. Cioè non c’è un capo partito che si stia muovendo effettivamente per portare tizio o caio al Quirinale. Nelle ultime elezioni Matteo Renzi, allora capo del Pd, svolse questo ruolo.

Renzi è stato anche cruciale per portare Draghi a palazzo Chigi. Oggi sembra quasi che gli attacchi a Renzi, giusti o sbagliati che siano, servano a minarne la credibilità come regista delle elezioni del prossimo presidente. Né altri si stanno muovendo con chiarezza, come rileva anche Massimo Franco sul Corriere della Sera.

In mancanza di un kingmaker i giornali ogni giorno macinano nomi su nomi, e la girandola sembra servire solo a bruciarli. Ciò è tanto vero che il saggio Stefano Folli rilevava ieri che proprio la ridda di candidature, tutte confuse, fa rientrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta. Cioè al di là della grande rinuncia la rielezione di Sergio Mattarella rimane un’áncora per il paese in un momento di confusione estrema.

In effetti, ad oggi questa è l’ipotesi più ragionevole, al di là delle parole del diretto interessato, dei mugugni contro Mattarella che vengono dal centrodestra e da Italia viva (Renzi), che possono avere la maggioranza dei voti in parlamento.

Ma forse c’è anche un altro elemento che dovrebbe venire per primo nel ragionamento della scelta del capo dello Stato: a che deve servire questo presidente nei prossimi sette anni?

È chiaro infatti che al di là di ogni disputa leguleia, il prossimo presidente avrà poteri enormi nei fatti, proprio per la fragilità interna ed esterna.

Tali poteri poi si scontreranno con una enorme fragilità politica. Questo parlamento già da tempo non è rappresentativo del paese in un punto fondamentale. I Cinquestelle oggi sono maggioranza relativa in parlamento, e hanno condizionato la politica negli ultimi quattro anni, ma alle prossime elezioni potrebbero essere drasticamente ridotti.

Quindi il presidente dovrà governare una fine di legislatura molto delicata, fra tensioni interne e internazionali crescenti, e un nuovo parlamento che sarà molto diverso da quello che lo ha eletto.

Quindi prima ancora di perdersi tra i nomi di possibili eletti e grandi elettori, la domanda dovrebbe essere: che tipo di uomo ci vuole per governare tale instabilità in mezzo a grandi sommovimenti e tensioni internazionali?

I partiti dovrebbero pensare a che profilo di presidente vogliono. Immodestamente, senza parlare con nessun partito, direi che ci vuole un uomo (o donna) di grande equilibrio morale e politico, e con una chiara e solida visione internazionale. Egli può avere grande esperienza italiana o meno. Ci sono pro e contro a scegliere una persona nata e cresciuta nella politica italiana. Il pro è la dimestichezza con i processi. Il contro è che gli orizzonti sono tutti nuovi e non si può continuare a gestire la situazione come in passato.

La tentazione del presidente e dei partiti sarà quella di ignorare il contesto in grande movimento. Ciò però metterebbe in grave pericolo il paese.