Il “semestre bianco” non sembra più il paventato tempo di agguati mortali al governo. Vi sono leader di partito – in particolare Salvini, Letta e Conte – che si agitano anche per l’imminenza delle elezioni amministrative di ottobre, ma senza prefigurare rotture. Sui propositi anti-Draghi prosegue infatti la discreta, ma ferrea vigilanza del Quirinale.
Già in occasione del voto sul testo della Cartabia attraverso il quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda, era giunto l’avvertimento che, in caso di uscita dal governo dei 5 Stelle, Draghi non sarebbe caduto, ma Mattarella avrebbe autorizzato il premier a procedere con un mero rimpasto sostituendo i ministri dimissionari.
Con l’avvento del semestre bianco si era però delineato il pericolo di una crisi, nel senso che se il M5s fosse uscito dal governo, il Pd guidato da Letta molto probabilmente lo avrebbe seguito rifiutando di rimanere con Salvini e Berlusconi senza Conte e quindi aprendo lo scenario delle dimissioni del premier.
È appunto in vista di questa eventualità che Sergio Mattarella in agosto, sempre attraverso Breda, ha reso noto il suo nuovo “avviso ai naviganti” e cioè: inutile agitarsi, Draghi non si tocca. Quanto riferito da Breda prevede la reazione del Quirinale a un’eventuale destabilizzazione in due tempi. In primo luogo: se si apre la crisi il governo resta in carica per il varo del Pnrr che è stato ormai approvato dal Parlamento. I precedenti dell’“ordinaria amministrazione” contano – precisa Breda – anche oltre 200 giorni. In secondo luogo: Mattarella potrebbe dimettersi anticipando l’elezione presidenziale. E – possiamo aggiungere – lo scenario è sempre più quello di una riconferma plebiscitaria. Quindi acqua gelata sui progetti bellicosi.
Abbiamo così un governo che, nato come un’ammucchiata di partiti in contrasto tra loro, ora Mario Draghi presenta nelle conferenze stampa come un monocolore operoso e solidale. D’altra parte vediamo i leader dei tre principali partiti della coalizione scontenti e polemici: Conte vuole un chiarimento con l’ex “suo” ministro Roberto Cingolani, Salvini attacca Luciana Lamorgese e la vaccinazione obbligatoria, Letta insiste sulla legge Zan e ora chiede una “verifica”. Di fronte al “monocolore” i tre reagiscono cioè con iniziative divisive cosiddette “identitarie”, ma con alle spalle un’identità confusa e partiti travagliati.
Matteo Salvini come leader del centrodestra non è mai riuscito a tenere uniti i tre partiti e ora è preoccupato dal sorpasso di Giorgia Meloni. Ha reagito alla proposta di federazione con Silvio Berlusconi, ma ha già fatto naufragare di fatto il progetto con la presa di posizione sul green pass che ha registrato il prevalere in Forza Italia di quanti erano contrari a un’alleanza organica con la Lega. Inoltre la contestazione del green pass in coincidenza con l’annunciata protesta di gruppi estremisti e anche violenti che si è rivelata fallimentare è stata una scelta che ha suscitato il dissenso dei suoi ministri e dei suoi principali leader sul territorio come il presidente del Veneto, Luca Zaia, e della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga. Anche sul piano elettorale è molto dubbio che questa presa di posizione di Salvini abbia effetto positivo in chi guarda alla Lega come espressione di realtà produttive e competitive.
Giuseppe Conte non è certo un fan del premier e sogna il ritorno a Palazzo Chigi, ma come presidente del M5s sta disegnando un rilancio dall’identità un po’ confusa e già teme la prima verifica elettorale che dovrebbe “pesare” l’avvento della sua leadership. Luigi Di Maio facendo dare a Emanuela Del Re un incarico Ue gli ha offerto la possibilità di candidarsi ora nel collegio di Roma-Primavalle. E Conte non solo rifiuta di presentarsi, ma addirittura vieta che nel collegio vinto dal M5s vi sia un candidato: teme che la sua figura di nuovo capo del Movimento venga giudicata dal prossimo esito elettorale e già avverte che le prossime elezioni amministrative non sono da considerare un test politico nazionale.
Da parte sua Enrico Letta, divenuto segretario del Pd, tra da un lato il centrodestra dilaniato dal conflitto Salvini-Meloni e dall’altro il M5s nel travaglio Conte-Grillo, aveva tutto lo spazio per rilanciare il Pd come “fratello maggiore” del governo Draghi e con un ruolo centrale sulla scena nazionale. Al contrario il nuovo leader del Pd si è immediatamente trincerato nel perimetro del rapporto esclusivo con Conte (e Leu di D’Alema). È mancata una qualsiasi iniziativa positiva verso il centro-sinistra alla sua destra: Renzi, Calenda e Bonino. Di certo dal Nazareno in questi mesi non c’è mai stata una polemica verso i cinquestelle: un appiattimento che ha provocato una visibile differenziazione in seno al partito in particolare sulla giustizia, con non solo Gori ma anche Goffredo Bettini, l’ideologo dell’alleanza Pd-M5s, che firmano i referendum.
Il rapporto del Pd con Conte appare al tempo stesso una ingessatura e un’avventura. Il Fatto Quotidiano, ad esempio, pubblica un’intervista apologetica a Conte (in cui promette che la sua prossima campagna elettorale sarà imperniata contro la legge Cartabia) accompagnandola con un editoriale di insulti a Draghi e un’intera pagina di attacco a Mattarella.
Inoltre la candidatura del leader Pd a Siena si delinea non trionfale: non solo perché l’appoggio di Renzi (che in Toscana conta) è un punto interrogativo, ma anche per il fatto che il parlamentare che gli ha lasciato libero il posto è Padoan, il presidente dell’Unicredit che propone lo “spezzatino” del Monte dei Paschi.
Il voto di ottobre in realtà rischia di destabilizzare non il governo, ma le segreterie di partito.
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