Giuseppe Conte è sotto assedio. Nel momento in cui deve gestire la fase più delicata della crisi pandemica si trova sotto il fuoco degli avversari e degli alleati. Con l’opposizione ormai siamo agli schiaffoni e ai colpi bassi, ma forse ancor più insidioso è il rapporto con gli alleati. Il Pd che da oltre un mese si muove a rimorchio ha cercato di ritrovare l’iniziativa con una proposta a dir poco strampalata: una tassa addizionale sui redditi medio-alti (oltre 80 mila euro annui). L’esigenza che i ricchi facciano di più per aiutare i poveri in questa fase drammatica è sacrosanta, ma l’imposta non colpisce la ricchezza, bensì i redditi. Può essere comprensibile anche se irrealizzabile e controproducente, una patrimoniale che incida sulla proprietà, sui beni mobili e immobili. Ma è proprio campata in aria un’imposta sui redditi da lavoro, che incide, come dimostrano i dati dell’Agenzia delle entrate, per tre quarti sui lavoratori dipendenti e la cui progressività è aleatoria. L’iniqua giungla fiscale diventerebbe più intricata e ancor più iniqua.



E quale sarebbe poi la base imponibile? Quella del 2019 cioè prima della crisi o quella del 2020 falcidiata dal blocco delle attività? Come si vede è una trovata pasquale destinata a cadere nel nulla, del resto dopo sole 24 ore non ha più padri (Nicola Zingaretti fa lo gnorri e lascia il cerino al povero Graziano Delrio).



E tuttavia non è il Pd l’insidia maggiore per Conte, bensì il Movimento 5 Stelle, e la trappola si chiama Mes, il Meccanismo europeo di stabilità. Diciamo subito che il grande spaventapasseri non è stato concepito nel 2012 con il governo Monti, ma nel marzo del 2011 durante il governo Berlusconi del quale effettivamente faceva parte Giorgia Meloni. Il presidente del Consiglio ha sbagliato le date, ma ha ragione. Anche se in quella fase si trattava ancora di una proposta da definire (e fu discussa per mesi). Il Fondo salva-Stati venne approvato a dicembre quando Berlusconi era caduto e al suo posto c’era Mario Monti, il quale nel 2012 accettò di anticiparne l’applicazione di un anno, non per l’Italia, bensì per la Grecia, perché Monti ha sempre rifiutato, come aveva già fatto Berlusconi, di ricorrere alla famigerata trojka.



Il Mes del quale si sta parlando è tuttavia diverso. In primo luogo, viene utilizzato per un altro tipo emergenza, non imporrebbe le condizioni previste nel caso in cui servisse a salvare un Paese in default e dovrebbe affrontare non solo l’emergenza sanitaria, ma la fuoriuscita dalla crisi. L’Italia potrebbe ottenere 35 miliardi di euro: non è abbastanza, ma non sono nemmeno noccioline. Conte dice che non ne abbiamo bisogno. Può darsi, intanto non si vede ancora il pluri-annunciato decreto di Pasqua che dovrebbe ammontare, guarda caso, a 35 miliardi di euro, stando alle anticipazioni dei giorni scorsi.

La vera trappola non riguarda l’entità delle risorse, ma la reazione a catena che il Mes metterebbe in moto. Il ricorso al Fondo salva-Stati consente alla Banca centrale europea di innescare le Omt (Outright monetary transactions) introdotte da Mario Draghi nell’estate del 2012 dando seguito concreto al suo “whatever it takes”. Si tratta dell’acquisto di titoli di stato sul mercato secondario, diverso dal Quantitative easing: mentre quest’ultimo riguarda tutti i paesi dell’eurozona, a seconda della loro quota di proprietà della Bce, l’Omt si applica al singolo Paese che ne ha bisogno, senza alcun limite. È proprio questo che tenta la Spagna, la quale ha già fatto ricorso all’Ue per la crisi delle proprie banche.

E le condizioni? È chiaro che per accedere al Mes bisogna accettare le misure concordate con l’Unione europea e con la Bce, ma questo è vero anche nel caso del coronavirus? Se dobbiamo stare alla lettera dell’accordo raggiunto dall’Eurogruppo, si tratterebbe di un accesso al Fondo salva-Stati per lo scopo specifico di combattere la pandemia, quindi senza le condizioni fiscali originariamente previste. D’altra parte, il Patto di stabilità è sospeso finché non verrà superata la crisi e ai Paesi è consentito di indebitarsi ulteriormente (in media il debito della zona euro salirà fino al 20% del Pil). Non tutto è così chiaro e senza dubbio andrebbe messo nero su bianco per evitare scherzi, al prossimo Consiglio europeo, ma rinunciare a priori al Mes significa anche chiudere la porta al bazooka della Bce. L’Italia può permetterselo? Di questo le forze politiche in Parlamento, sia della maggioranza che dell’opposizione, dovrebbero discutere con senso di realtà e di responsabilità.

Se la risposta è che sì, possiamo farcela da soli nell’attesa che arrivi Godot con i suoi eurobond, allora bando alle ciance, il Governo metta in atto quello che può decidere già oggi, a cominciare dal nuovo decreto per coprire l’emergenza delle famiglie e da una chiara definizione su come affrontare le scadenze fiscali. È del tutto irrealistico che a giugno si possano pagare gli arretrati. Così come per i prestiti garantiti dallo Stato, bisogna prevedere che le imposte del 2020 vengano pagate a rate, scaglionandole su un arco di tempo ragionevolmente lungo. Questo ha un costo pesante, apre un buco molto consistente nelle entrate dello Stato per il 2020, coperto emettendo altri Btp, cioè con debito pubblico. Chi lo comprerà? La Bce in parte e il resto? Non si può addossare alle banche le quali debbono provvedere ai 400 miliardi sia pur garantiti dallo Stato. E a chi, ai risparmiatori italiani, ai mitici mercati?

Se si volesse davvero ricorrere a una misura di solidarietà redistributiva, allora avrebbe più senso proporre un prestito allo scopo di assorbire parte delle nuove emissioni di debito, senza provocare una nuova impennata dei tassi di interesse reali. Bisogna parlare in modo concreto delle soluzioni concrete. Finora il dibattito sta avvenendo su un piano del tutto astratto, viziato da una logica amico-nemico che può essere solo distruttiva.

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