Emergenza Venezia, caso Ilva, manovra 2020. Sono i tre nodi principali che ha di fronte il Governo. Su Venezia il Conte-2 ha deciso di stanziare 20 milioni e ha indetto per il prossimo 26 novembre una riunione del “Comitatone”, che dovrà occuparsi del futuro della città lagunare. Sul caso Ilva, ieri si è tenuto un vertice al Mise con ArcelorMittal e i sindacati, nel corso del quale è riemersa la questione centrale dello scudo penale, mentre da Milano la Procura ha fatto sapere di avere aperto un’inchiesta, al momento senza indagati né ipotesi di reato. Infine, sulla manovra il premier ha convocato un vertice di maggioranza “finalizzato a organizzare meglio il lavoro”, invitando tutti i partiti della maggioranza “a considerare lo spirito di squadra anche nelle aule parlamentari. Vi prego di conservare questo generale superiore interesse, nella consapevolezza che molte premure rappresentate al tavolo sono state raccolte, in una logica di squadra, di spirito complessivo che persegue un interesse generale”. L’intreccio di queste tre vicende che impatti potrà avere sulla tenuta del governo? Lo abbiamo chiesto a Guido Gentili, editorialista del Sole 24 Ore.
Conte ha chiesto più “spirito di squadra” alle forze di maggioranza per non stravolgere la manovra in Parlamento. Come va interpretato questo richiamo?
È stato un vertice con tanti protagonisti, più di una quarantina di persone sedute intorno al tavolo di Palazzo Chigi, che mi ha subito riportato alla memoria alcuni vertici simili dei governi Prodi negli anni Duemila. Vertici che più che esprimere unità e volontà di decisione operativa erano il frutto delle divisioni, che lì si cercavano di rimettere insieme, all’interno di quelle maggioranze.
Anche oggi siamo in una situazione simile?
Questa maggioranza è nata sulla scia di due obiettivi dichiarati: in termini politici, impedire a Salvini di tornare al governo e, in termini di politica economica, sterilizzare gli aumenti dell’Iva. Dopo una settantina di giorni, quindi un lasso di tempo breve, sono già emerse, forse prima del previsto, tutte le difficoltà di una maggioranza, all’inizio a tre con M5s, Pd e LeU, cui poi si è aggiunta Italia Viva di Renzi. In tutto il percorso della manovra di bilancio abbiamo visto tensioni e un andirivieni di proposte che sbocciavano un giorno e il giorno dopo sfiorivano. E siamo ancora alla vigilia di un iter parlamentare molto complicato. Quindi il tentativo di Conte di chiamare a un gioco di squadra vale per quello che vale, cioè poco. Sulla sostanza della manovra restano fratture profonde, soprattutto sulle misure fiscali.
Al netto di queste divisioni politiche, che giudizio si può dare di questa manovra? È vero che è fatta di troppe micro-tasse e che è poco coraggiosa sugli strumenti messi in campo per aiutare la ripresa e gli investimenti?
È una manovra fortemente condizionata da una scelta non di discontinuità, come invece promesso da Conte come atto politico primario, perché si è deciso di tenere sia reddito di cittadinanza che quota 100, i due provvedimenti-bandiera del governo giallo-verde. Avendo congelato gli aumenti Iva di 23 miliardi, non rimangono grandi spazi di manovra e si è dunque imboccata l’unica strada possibile: ridurre al minimo le misure di politica economica espansiva, alzare una miriade di micro-tasse e finanziare metà dei 31 miliardi in deficit, quindi a debito. Scelta che, a fronte dell’esiguità delle risorse disponibili, amplifica difficoltà e divisioni tra gli alleati di governo.
Intanto alla Camera sono stati presentati più di mille emendamenti: il classico assalto alla diligenza che caratterizza ogni Legge di bilancio. Ma c’è un fattore aggravante: le fratture, appunto, tra i partiti del governo giallo-rosso. Sulla manovra il Conte-2 rischia qualche deragliamento?
La situazione è delicata e complicata, perché i tempi per l’approvazione sono ristretti, ma soprattutto si conoscono i saldi, ma ancora non si conosce l’esatto profilo di questa manovra. È appena sbarcata in Parlamento e alcune misure, elaborate e tradotte con grande difficoltà nella bozza del disegno di legge e nel decreto fiscale, sono già in via di ridefinizione, come la plastic tax e la tassa sulle auto aziendali. Le tensioni sono molto forti, acuite anche dal campanello d’allarme che è suonato dopo il voto in Umbria. Ad aggravare il quadro, poi, si sono aggiunti il caso Ilva e l’emergenza Venezia.
Appunto, caso Ilva, cioè rischio di un’Italia senza acciaio, ed emergenza Venezia, emblema di una trascuratezza di investimenti per la messa in sicurezza del territorio, che cosa simboleggiano?
Sono due esempi da manuale del declino italiano, che dimostrano l’imprevidenza della nostra classe politica e fanno sì che sui mercati internazionali e di fronte all’opinione pubblica mondiale l’Italia non faccia una bella figura. Nella vicenda dell’Ilva siamo alle porte di una guerra giudiziaria senza esclusione di colpi tra ArcelorMittal, lo Stato italiano e ora anche la Procura di Milano. Non si sa invece come finirà la partita industriale: da qui invece occorre partire e ragionare, perché sarebbe un grande fallimento della politica industriale. Non esiste che la seconda potenza manifatturiera d’Europa non abbia più la disponibilità di un’industria dell’acciaio, che peraltro è stata per anni motivo di vanto dell’Italia, a partire dal dopoguerra, anni in cui è stata un fiore all’occhiello del nostro sviluppo. È chiaro che le condizioni sono cambiate e oggi la competizione globale è feroce, ma noi dobbiamo rimanere in quel mercato, come avviene in molti paesi all’estero. Senza dimenticare che il viavai dello scudo penale è un segnale di incertezza delle regole, del diritto che tiene lontani gli investitori internazionali.
È questa la svolta che dobbiamo attenderci dal governo giallo-rosso?
Questa maggioranza è insieme per motivi che non possono bastare a imprimere una svolta, che pure era stata profilata e promessa dallo stesso premier Conte, premier – ricordiamolo – che in modo repentino non ha esitato a passare dal governo giallo-verde al governo giallo-rosso. Conte ha promesso anche un orizzonte di legislatura, che però è naufragato subito con la discussione sulla manovra di bilancio, viste le diversità radicali emerse tra i quattro partiti alleati. Il collante del rimanere in piedi giorno per giorno rischia di naufragare di fronte a problemi spinosi come l’Ilva, Venezia, la politica industriale.
Sulla manovra il ministro Gualtieri si è dichiarato fiducioso che verrà approvata senza stravolgimenti e “questo sarà un risultato miracoloso che verrà recepito all’esterno”. Per ora Bruxelles si mantiene attendista, lo spread però ha cominciato a rialzare la cresta. Finirà che, come al solito, andremo in Europa e sui mercati con il cappello in mano?
Non credo che i saldi della manovra saranno stravolti e credo che più o meno rimarremo nei confini a suo tempo definiti. Questo consente al governo un negoziato più “facile” anche sul piano della flessibilità che l’Italia chiede, visto che metà della manovra è a debito. La Commissione Ue e i mercati metteranno però l’accento sulla qualità delle misure.
Su quali aspetti si concentrerà l’attenzione?
È una manovra che non assicura all’Italia un orizzonte di crescita: nel 2019, se tutto andrà bene, il Pil farà segnare uno striminzito +0,1% e nel 2020 arriveremo intorno al +0,5%, comunque sempre ultimi tra i Paesi europei e tra i Paesi Ocse. Non si indica una svolta sulla ripresa. È una manovra di galleggiamento, che rimanda la soluzione dei problemi. E se è vero che sono stati sterilizzati 23 miliardi di aumenti Iva, è altrettanto vero, come ha ricordato la Banca d’Italia, che le clausole di salvaguardia non sono state del tutto abolite, tanto che nel 2021 e nel 2022 avremo di fronte impegni per altri 43 miliardi.
Proprio Bankitalia, a proposito del taglio del cuneo fiscale, ha sottolineato che i 3 miliardi messi sul tavolo dal governo sono una goccia nel mare (152 miliardi nel 2018) delle tasse pagate dai lavoratori dipendenti. Il governo ha mancato di coraggio?
I 3 miliardi sono del tutto insufficienti per rilanciare i consumi e dare ossigeno alle famiglie italiane. Già il governo Prodi, per esempio, varò un intervento da 6-7 miliardi che rimase praticamente invisibile, non sortì alcun impatto sullo sviluppo. E 3 miliardi sono pochi anche rispetto alle promesse fatte: tutti i partiti della maggioranza di governo avevano un’idea condivisa sul taglio del cuneo, tutti affermavano che sarebbe stata la carta vincente della manovra 2020. Poi, avendo confermato reddito di cittadinanza e quota 100, si sono ritrovati senza risorse e oltre tutto questo taglio entrerà in vigore solo dal 1° luglio del prossimo anno, con Renzi che addirittura chiedeva lo slittamento all’autunno. Insomma, da misura bandiera della svolta a misura quasi residuale.
Renzi ieri ha presentato il suo piano shock per rilanciare l’economia: 120 miliardi di investimenti in 3 anni. Al di là degli aspetti di merito, oltre a mettere in imbarazzo il M5s come partito della decrescita felice, è anche un amo lanciato agli elettori moderati, al cosiddetto “partito del Pil”?
È una strada a due vie: da un lato, Renzi cerca consensi nell’elettorato moderato; dall’altro, vuole entrare, un po’ alla lontana, in sintonia con quella che è la sfida lanciata dalla Lega: una manovra shock, appunto, che possa garantire una frustata all’economia, frustata che Salvini vorrebbe dare soprattutto con la flat tax. Certo che, parlare di 120 miliardi senza indicare tagli di spesa o aumenti di tasse, significa finanziare questo shock ancora una volta in deficit. Vorrei a tal proposito ricordare che anche nel 2017, governo Gentiloni da poco insediato, Renzi propose una svolta: arrivare al 2,9% di deficit/Pil per quattro anni così da poter avere le risorse per fare una manovra shock dal punto di vista fiscale. Mi sembra, due anni e mezzo dopo, la riproposizione della stessa strategia.
(Marco Biscella)