Tira aria di bonaccia nel governo, la quiete dopo la tempesta quando Leopardi udiva “augelli far festa”. Pareva che dovesse cadere tutto, che le finestre (elettorali) dovessero aprirsi per consentire a qualcuno di buttarsi di sotto. Secondo gli avversari di Matteo Salvini, in questi giorni ci saremmo dovuti ritrovare nel bel mezzo di una crisi. Invece nulla. Ora si parla tutt’al più di un tagliando al contratto di governo, cosa che effettivamente dopo un anno sarebbe anche opportuna, o di un rimpasto. Un giro di poltrone stile prima repubblica per placare Salvini sacrificando Toninelli e consentire all’esecutivo di pensare alla legge di bilancio che dovrà evitare la stangata dell’Iva.
Le finestre, a sentire gli azzeccagarbugli dei regolamenti, sarebbero ancora aperte. Sarebbe cioè tecnicamente ancora possibile decidere di andare a votare a ottobre. Salvini ci ha pensato seriamente. Poi sono successe alcune cose che l’hanno indotto a desistere. La prima è stata la posizione del Quirinale. Sergio Mattarella ha ricevuto Giancarlo Giorgetti al Colle per apprendere dalla sua viva voce l’indisponibilità a trasferirsi a Bruxelles come commissario europeo: una chiacchiera di cortesia, perché è evidente che un leghista difficilmente potrebbe entrare nell’esecutivo von der Leyen dopo averle votato contro, ma utile per capire la strategia mattarelliana. Che è quella di non opporsi alle elezioni in linea di principio, ma di disseminare di ostacoli la strada verso il voto.
Il presidente ha fatto intendere che Conte dimissionario dovrebbe presentarsi alle Camere e avere una sfiducia formale. Salvini come voterebbe? Come spiegherebbe agli elettori un voto contro il premier sostenuto per un anno e mezzo? E comunque, la parlamentarizzazione della crisi allungherebbe i tempi della crisi, con il rischio di non approvare in tempo la legge di bilancio, finire in esercizio provvisorio e fare scattare l’aumento dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia. Tutte cose che verrebbero messe sul conto di Salvini.
Poi c’è il problema Europa. Tramontata l’ipotesi di Giorgetti, chi mandare in Commissione? Moavero o addirittura il ministro della Difesa Trenta, omologa e amica della von der Leyen? Che peso avrebbe un governo dimissionario per pretendere una delega importante e imporre un nome rappresentativo? Salvini ha già commesso un errore imperdonabile negando l’appoggio alla nuova presidentessa della Commissione, se facesse un altro passo falso la sua immagine di abile stratega ne uscirebbe rovinata.
Ma la Lega ha dovuto fare i conti anche con l’attaccamento grillino alle poltrone. In Transatlantico si dà per certo che decine di parlamentari a 5 Stelle voterebbero anche un governo tecnico, o un nuovo Nazareno allargato, pur di non tornare subito al voto e perdere la poltrona. È lo stesso schema applicato per l’elezione della von der Leyen, quando i grillini si sono aggiunti ai popolari (cioè Forza Italia e dintorni) e ai socialisti (Pd) risultando determinanti per il risultato finale. Che si vada volontariamente verso questa soluzione è difficile, che la si possa adottare come soluzione di emergenza “responsabile” potrebbe essere più ipotizzabile.
Così Salvini ha lasciato perdere, in settimana si sottoporrà alle forche caudine dell’audizione parlamentare sui fondi russi e poi se ne andrà in ferie. La parodia della crisi è stata archiviata, a meno di clamorose e imprevedibili novità. Di Maio ha già girato la frittata dicendo che “c’è qualcuno che trama per buttarci giù”. Nemmeno in questo 2019 gli italiani assisteranno a una campagna elettorale sotto l’ombrellone.