La grande rincorsa continua. È la rincorsa al Covid e a evitare i contagi. Ormai nessuno si fa più illusioni, per gli italiani è diventata soltanto una questione di giorni. Un rassegnato conto alla rovescia verso il prossimo lockdown. Nel sentire collettivo la seconda reclusione domiciliare è solo questione di tempo, non più di evoluzione dei contagi e del numero di posti letto di terapia intensiva occupati.
Il modo con cui il governo ha affrontato la seconda ondata del Covid non lascia spazio a possibilità alternative. Senza gli interventi incisivi che dovevano essere attuati negli scorsi mesi, non resta altro che applicare la stessa ricetta di 10 mesi fa: tutti chiusi in casa. Non sono stati aumentati i letti di terapia intensiva, non è stato assunto nuovo personale sanitario per fare funzionare le apparecchiature di emergenza, non è stata potenziata la rete di trasporti pubblici per consentire i distanziamenti, non è stata attuata una strategia di tracciamento efficace dei contatti (il fallimento dell’app Immuni è un simbolo dell’inefficienza), non è stato predisposto un piano di tamponi di massa. Ieri un autorevole think tank formatosi negli ultimi mesi, Lettera150, che raccoglie ricercatori, esperti e docenti, ha svelato un documento recapitato al governo il 29 marzo scorso che conteneva un grande progetto alternativo al lockdown per fermare l’epidemia in 20 giorni. È finito dritto nel tritacarta di Palazzo Chigi.
L’elenco degli errori del governo è lungo. Ma l’impatto dell’immobilismo è diventato drammatico in questi giorni, quando quello che tutti dicevano di voler evitare, cioè il secondo lockdown, si avvicina inesorabile a grandi passi. L’altro giorno 4 regioni sono diventate arancioni aggiungendosi alle 6 già di colore rosso o arancione, e altre 4, secondo l’Istituto superiore di sanità, dovrebbero aggiungersi quanto prima. Il governo fa quello che ha sempre fatto in questi mesi: attende gli eventi. Si guarda bene dall’attivare politiche attive anticontagio, ma sta alla finestra, assiste all’evoluzione, e poi decide le solite cose: bonus e chiusure.
Non c’è da meravigliarsi che i sondaggisti rilevino un forte calo di consenso verso l’esecutivo, incapace di introdurre elementi di novità nella strategia per arginare la pandemia. L’immobilismo non riguarda solo il fronte sanitario, ma anche quello economico. Al grido di dolore delle categorie produttive la risposta è invariata: cassa integrazione e sussidi. Cioè mance che rinviano i problemi. Ai lavoratori viene garantito uno stipendiuccio (sempre che l’Inps eroghi gli aiuti tempestivamente), ma è l’imprenditore che cammina sul filo senza sapere quanto l’azienda potrà reggere senza produrre né, naturalmente, vendere.
Dalla Lega è arrivata la proposta di tagliare l’Iva, una tassa che finisce in gran parte in Europa. Il governo si era detto disposto a esaminare riduzioni fiscali, ma la disponibilità è rimasta virtuale. La strategia è quella di aspettare l’iniezione di denari europei, che però arriveranno in un futuro non ancora precisato: soldi che dovranno essere restituiti, sia pure a tassi azzerati, per i quali, tuttavia, mancano ancora i progetti di impiego chiesti da Bruxelles.
Un tempo nelle paludi allignavano le zanzare portatrici della malaria. Oggi nel pantano stagnante della politica immobile si diffonde una nuova malattia infettiva, che non è solo il virus aggressivo delle vie respiratorie: è l’incapacità di affrontare i problemi che la realtà pone.