Non si fa che parlare di crisi di governo. Incessantemente da mesi, da settimane, da giorni. Non poteva essere che così: i contratti sono uno strumento per transazioni di merci, non patti politici. Infatti, la politica chiama all’accordo tra gruppi dirigenti, tra comunità di destino. Ben diverso l’incontro giallo-verde. Si trattò di un ersatz, ossia solo di un surrogato degli accordi politici tra esponenti della classe politica che sono necessari per qualsivoglia Governo. Il tentativo di abolire la politica attraverso una sorta di memorandum of understanding è fallito. Come affermava Ulrich Beck, la politica ci si illude di abolirla, essa si nasconde sempre da qualche altra parte per riapparire quando meno la si attende.
Il Governo ha dinanzi a sé alcune questioni decisive. La più significativa da cui tutto discende è la riforma dello Stato per quel che concerne non solo i rapporti tra centro e periferia, ma addirittura la configurazione neo-federalista, minghettiana, dell’ordinamento istituzionale della Repubblica. Da un lato il principio di costituzionalità che si fonda su una serie di politiche economiche essenziali per rispondere ai bisogni di cittadinanza, dall’altra la pervicacia ostinazione che sia sempre lo Stato e non il cittadino associato responsabilmente a essere fautore del destino suo e della sua comunità, come ci insegnarono Adriano Olivetti, Felice Balbo e Giorgio Ceriani Sebregondi.
Tra questi due principi si colloca il dibattito odierno. Occorre partire da una realtà di fatto: lo Stato centrale, ossia quello weberiano razional-legale, in Italia è in frantumi. Distrutto in primo luogo dalla sua degenerazione liberista e globalista. Dall’alto per la sottrazione di sovranità eurocratica e trattatistica interstatale europea; dal basso, o meglio dal suo interno, con la cosiddetta riforma dell’articolo V che ha frammentato senza una visione la stessa struttura nervosa dello Stato (alcune competenze regionali sono una sorta di suicidio statuale), senza cogliere il valore di un decentramento responsabile che invece stimoli le forze endogene dello sviluppo secondo il vincente modello ambrosiano che segna una svolta neo-minghettiana decisiva nella storia d’Italia.
Oggi il Governo è in crisi perché il contratto si rivela ciò che è: una zona di neutralizzazione delle ostilità tra forze del sistema politico profondamente eterogenee, troppo per poter condividere qualsivoglia strategia. Un partito di massa ranking and file come la Lega non può condividere destini con insiemi atomistici peristaltici eterodiretti come i 5 Stelle. La questione russa è un diversivo creato ad arte su cui non vale la pena di soffermarsi se non per notare che nuovamente la situazione internazionale si disvela come essenziale per decidere le sorti della politica interna. Ma, shakespearianamente, quella che può essere una tragedia (cinese) si trasforma in farsa…
Giova sottolineare il fatto che mentre esplode il fallimento degli studi e degli studenti tecnici e professionali che mancano all’appello di un’Italia economica soffocata da uno Stato centralizzato disgregato, ma burocraticamente estrattivo, che rende pressoché agonizzante l’industria italiana, non si affrontano i problemi della crescita e quindi degli investimenti.
L’unica ancora di salvezza rimane la serena cocciutaggine del ministro Tria che bene dovrebbe accordarsi con i neo-minghettiani presenti nel Governo. Ma è lecito arguire che solo le elezioni Usa decideranno delle sorti dell’italico Governo. Non certo le cavallerie russe, che non vogliono abbeverarsi alle fontane romane. Il grande Respighi può dormire sonni tranquilli e noi continuare a godere dei suoi capolavori.