Nel dicembre 2015 si firmò a Parigi un accordo denominato COP-21, che fece seguito a quello di Copenhagen del 2009. Si parlò allora di “primo testo universale” di un accordo che fece e fa scorrere fiumi di inchiostro a illustri e meno illustri esperti di diritto internazionale e dei trattati. Quell’accordo era diretto a  ridurre la temperatura di 2 gradi, cioè sotto i livelli della prima rivoluzione industriale dal 2015 al 2100 (si trattava di 2.900 miliardi di tonnellate di CO2, con un taglio dell’ordine tra il 40% e il 70% delle emissioni entro il 2050). Gli obiettivi sono stati poi via via rimodulati secondo “gli impegni nazionali” (INDC) ogni 5 anni, in modo da renderli sempre più ambiziosi.



L’accordo di Parigi entrò in vigore nel 2016, con la ratifica di 55 Paesi che rappresentavano e rappresentano il 55% delle emissioni globali di gas serra.

Tutti i Paesi dell’Ue ratificarono l’accordo, che fu il primo di carattere vincolante e di portata globale, secondo quanto si convenne alla cosiddetta COP-23 di Bonn del novembre 2019. Da pochi giorni stiamo assistendo a un altro summit di eccezionale portata mediatica a Glasgow.



I recenti avvenimenti che hanno riacceso i riflettori sulla questione climatica hanno altresì aperto una discussione appassionata sulle conseguenze industriali ed economico-sociali del patto sul cosiddetto cambiamento climatico. E questo per le evidenti conseguenze che ne sortiranno, se gli impegni assunti nel summit iper-mediatico verranno posti in essere.

A me è venuto allora alla mente un altro accordo che si firmò a Parigi nell’agosto 1928, quasi cento anni or sono: il cosiddetto “Patto Briand-Kellogg”, ossia il “Trattato di rinuncia alla guerra” o “Patto di Parigi”, il cui fine era quello di eliminare la guerra quale strumento di politica internazionale.



Si trattava di un accordo molto ambizioso, che aveva coinvolto inizialmente un impero vecchio e uno nuovo. Fu il ministro degli Esteri francese Aristide Briand, infatti, che propose al Segretario di Stato statunitense Frank Kellogg un patto bilaterale di non aggressione. Esso avrebbe dovuto vincolare gli Usa a un concerto tra le nazioni per opporsi alla volontà guerrafondaia della Germania contro la Francia. Kellogg, nello spirito del liberalismo internazionalistico, che aveva a quel tempo i primi suoi albori diplomatici, propose la conversione di un simile patto in un “accordo generale multilaterale”. Il fine era proporre a GermaniaItaliaGiapponeGran Bretagna di  non considerare più la guerra una prerogativa consunstanziale alla sovranità degli Stati singolarmente intesi. Un consesso di Stati di tutto il mondo si sarebbero, invece, dovuti accordare per condannare il ricorso alla guerra in caso di divergenze internazionali. 

Sappiamo come proseguì la storia del mondo, anche se quel Patto ebbe una valanga di ratifiche. Questo non significa certo che il mondo debba sprofondare nella minaccia permanente della guerra e che non si debbano più ricercare sempre tutte le vie della pace. E certo non vi è nulla più della riduzione delle emissioni carboniche che comporti la necessità di una autoregolazione dei meccanismi economici e una coralità di volontà e di intenti che possono essere garantiti solo dalla cooperazione. Almeno con gli Stati che a quelle emissioni contribuiscono in più alto grado. Pensando a tutto ciò non è forse senza significato che il nazionalista indù Modi, primo Ministro dell’India, abbia partecipato ai lavori di Glasgow in vestimenti tradizionali, sempre con una dignità e una solennità nei suoi comportamenti che non potevano non colpire. Così da indurre poi il Presidente Mario Draghi a non considerar più come dirimente la data del 2050 per definire i contenuti dell’accordo climatico. Gli obbiettivi ambiziosi indicati dovevano essere raggiunti nella seconda metà del secolo, così da sfumare le divergenze ben poste in evidenza da Modi, quando aveva annunciato che prima del 2060 l’India non avrebbe potuto impegnarsi a raggiungere gli obbiettivi tanto clamorosamente annunciati dall’Ue per il 2050.

E come non parlare dell’assenza di Xi Jinping al summit? La Cina ha ripreso la produzione di carbone a tutto spiano, così come la Germania, del resto, e la Polonia, e gli Usa e l’Indonesia e…molte altre nazioni ancora.

Ma perché, allora, il riferimento al patto Briand-Kellogg? La risposta è nei venti di guerra, venti controllati, per carità, che soffiano proprio nell’Oceano Indo-Cinese, ossia là dove Taiwan diventa un elemento di contenzioso e di confronto certo più grave e pericoloso di quel che fu l’Alsazia Lorena nel confronto tra Francia e Germania negli anni tra le due guerre mondiali e a cui mi son permesso di far riferimento.

È in questo contesto di ricorsi storici che il recente accordo di Glasgow mi pare una sorta di nave dei folli, un Titanic dove si discetta di questioni che sono secondarie rispetto ai rischi tremendi che il mondo oggi corre. E i rischi sono quelli di un nuovo conflitto nucleare tra grandi potenze, di cui alcune non hanno neppure firmato i trattati di non proliferazione e di controllo reciproco su quegli armamenti terribili.

Del resto gli Usa si son fatti portatori – nello stesso tempo dell’accordo di Glasgow sul clima – di un accordo proprio sui propellenti nucleari sottomarini in funzione anti-cinese che ha offeso profondamente la Francia che – da quell’accordo che ha coinvolto Uk, Australia e Usa – è stata esclusa.

Son seguite le scuse di Biden a Macron, ma il disordine internazionale è destinato a crescere, clima o non clima…

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