Mai come in questi giorni vengono alla mente le parole di un capolavoro: quello di Ernst Wolfgang Böckenförde (Diritto e secolarizzazione. Dallo stato moderno all’Europa unita): “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”. La parabola della democrazia liberale non poteva non evolversi secondo la traiettoria che ha scatenato la guerra civile mondiale del Novecento e che oggi ha finito, quella traiettoria, per decomporsi nelle sue forme statualizzate: la traiettoria della democrazia sociale che doveva sviluppare e non abolire il liberalismo in una sintesi hegeliana mai realizzatasi, sepolta dalle dittature capitalistiche di Stato, sovietiche, maoiste e – oggi in Cina – post-maoiste, per non parlare degli aborti storici cubano e venezuelano. L’impero europeo senza diritto e Costituzione è una variante di questa disgregazione.



Il risultato è stato la rottura di ogni legame tra liberalismo e socialismo, anche nelle sue anticipazioni welfariste, sia bismarchiane sia laburiste quanto a origine storica. Il capitalismo finanziarizzato ha trasformato tutti i presupposti della stessa forma politica costituzionale negli Stati a codice napoleonico, sotto l’impulso della centralizzazione capitalistica, così com’è il caso dell’Unione Europea. Essa, infatti, per realizzarsi ha abolito ogni forma di diritto costituzionale adeguato a tale centralizzazione (né federale, né confederale, ma funzionalistica) e ha sostituito il diritto con i rapporti di forza esercitati attraverso la burocrazia europea.



Essa è una nuova tecnocrazia dominante. Nelle civilizzazioni a common law, invece, la trasformazione provocata sia dalla finanziarizzazione, sia dalla centralizzazione istituzionale è avvenuta senza strutture tecnocratiche interstatali, attraverso la creazione di coorti manageriali potenti di quello che ho definito l’owner capitalism, ossia un capitalismo non più manageriale e quindi controllato dagli azionisti, bensì dalla suddetta coorte costituitasi in classe non più stipendiata, come un tempo dagli azionisti, ma padrona essa stessa del capitalismo, attraverso le stock option (possedendo le azioni degli azionisti che… dovrebbe rappresentare).



Mi direte: che cosa c’entra tutto questo con il coronavirus? È invece essenziale per comprendere che cosa stia accadendo nel capitalismo mondiale diviso, certo, ancora per Stati nazionali che sono di fatto solo ostacolo alla centralizzazione sia europea che finanziaria appena evocata. È successo ciò che soprattutto la cultura francese sta studiando da anni con punti di vista diversi e drammatici. Dalla distanza aristocratica di Amin Maalouf (Les naufrages des civilisations) all’intelligenza politologica di Jérôme Sainte-Marie (Bloc contre Bloc) alla drammaticità statistica di Christophe Guilluy (Le crépuscule de la France d’en haut e La France périphérique) sino a Pierre Vermeren (La France qui déclasse). In Italia non vi è nulla di simile, se non gli eroici tentativi di Raffaele Alberto Ventura (La guerra di tutti e Teoria della classe disagiata) e il luminoso e antiveggente libro di Gabrio Casati che ebbi l’onore di introdurre (Luigini contro contadini).

Cosa dimostrano queste ricerche (a cui potremmo aggiungere un pugno di testi che provengono dal mondo anglosassone e che sorgono tutti dalla via aperta da Thomas Frank con i suoi saggi sugli orientamenti di voto “di rovesciamento della rappresentanza” tra poveri e ricchi e destra e sinistra classicamente intese)?

Da tutto questo rovello intellettuale si evince che l’ascensore sociale non solo si è bloccato, ma che questa fine della mobilitazione verso l’alto delle classi subalterne ha provocato sì l’aumento delle disuguaglianze e lo spostamento del reddito dal lavoro a capitale in forma prima mai vista su scala planetaria, ma anche la fine di ogni comunicazione cognitiva tra le classi alte e le classi ultime e penultime della società. Se si considera che tra le grandi trasformazioni di quest’ultimo trentennio le più rilevanti sono la diminuzione della dimensione media delle imprese, la grande trasformazione del lavoro collettivo di fabbrica e di ufficio in lavoro individuale e di piccoli gruppi e quindi l’enorme discrasia tra poche imprese grandi e miriadi moltitudini di imprese artigiane e famigliari la cui ontologia economica e sociale è ancora pressoché sconosciuta, ben si comprende come le classi alte che siedono al governo politico o a quello funzionale per via tecnocratica nulla sanno e vogliono sapere di codesto universo economico sociale umano. Non possono quindi essere in grado di intraprendere qualsivoglia cura economica e sociale per via governativa.

Le classi politiche che si trovano alla cuspide delle macchine governative deliberanti–amministrative nazionalmente intese, oppure intra-nazionali o internazionali secondo le divisioni funzionali tra organizzazioni universalistiche post-wilsoniane come l’Onu o la Fao, oppure economiche post-Bretton Woods come il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, ecc., senza contare le già richiamate istituzioni funzionali tipo Bce e le altre tecnocrazie europee figlie di trattati internazionali, nulla conoscono di ciò che accade e fonda la vita di queste nuove organizzazioni sociali ancora non studiate e che dovrebbero essere le destinatarie delle misure di emergenza per fuoriuscire dalle crisi, epidemiche e/o sociali.

In gran parte delle nazioni le classi politiche non circolano più secondo le forme illustrateci dai classici Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, ma in base ai movimenti peristaltici delle pressioni economiche e culturali che si esercitano su piccoli e piccolissimi gruppi di caciqui imprenditorial-politici spesso l’un contro l’altro armati anche se sottopostisi alle prove elettorali sotto l’usbergo dello stesso simbolo di lista. Questo è il tarlo che disgrega sia la democrazia, sia il liberalismo secondo la profezia di Böckenförde.

Ed è evidente, quindi, che quella peristalticità è tanto più dannosa quanto più le forme economiche e sociali attraverso cui si svolge la vita degli insediamenti umani interagiscono sempre più sul piano internazionale, come è reso evidente dalla diffusione epidemica. Ma, nel contempo, è sempre sul piano della competizione internazionale tra nazioni, quale sia la forma di cooperazione che si sia instaurata (dall’Unione Europea sino all’Onu) che si dipana la vita e la competizione economica, che è sì tra imprese, ma anche e sempre tra nazioni nel gioco di potenza mondiale.

È in questo gioco di potenza che si sviluppa la vita sociale ed economica. Le nazioni, infatti, lo si ricordi, sono rimaste statalmente attive nel mondo ben più di quanto non reciti la retorica globalistica di ogni genere o forma. E quindi tanto più le nazioni sono deboli nella competizione economica, militare, culturale che dir si voglia, tanto più le loro forze possono essere danneggiate da quella che è sempre una competizione tanto di imprese quanto di Stati che muovono a sostegno degli interessi economici nazionali. Ultima interessante conferma di ciò che affermo è nel pionieristico lavoro di Richard Davies, Extreme economies: Survival, Failure, Future. Lessons from the world limits.

L’esperienza italiana di oggi è un’impressionante conferma di queste tesi. Tutto confluisce, infatti, nell’incapacità di reazione delle classi politiche dinanzi agli eventi che richiedono decisioni rapide e coese e nel contempo realistiche, ossia fondate su una conoscenza dell’universo economico e sociale nei confronti del quale si vuole agire. In questo caso per alleviare le conseguenze di un cigno nero com’è un’epidemia virale. Questo è necessario perché le conseguenze della competizione prima evocata non si fermano neppure dinanzi alle epidemie. E le conseguenze saranno tanto più gravose quanto più deboli sul piano del reddito, dello status, della vita morale e non solo fisica si troveranno gli insediamenti umani e quindi le agglomerazioni di imprese, di ceti, di classi, di comunità: tutte le forme, insomma, della vita sociale. Il tutto mentre la tante volte ideologicamente negata competizione tra nazioni si svolge con estrema crudeltà, non fermandosi neppure dinanzi alla malattia, anzi sfruttando e amplificando le debolezze.

Una prova di ciò? Rileggete le gazzette moderne e postmoderne e scoprite che pare sia la Germania la fonte di un focolaio da coronavirus ben più potente di quanto si pensasse. Eppure nulla si disse per giorni. l’Italia, invece, si configura nel landscape simbolico mondiale come l’untore del mondo terraqueo. E che dire, allora, della Cina? Cosa sappiamo di ciò che veramente accade ed è accaduto nell’Impero di Mezzo? Nulla.

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