Ci sono tre fattori in discussione e, fortunatamente, arriva una mano dalla Banca centrale europea che fa veramente tirare il fiato. Occorre andare con ordine e guardare oggettivamente la situazione italiana all’inizio ormai della “fase 3”, quella che comincia mentre sembra spegnersi la pandemia e il Paese, già uscito dalla cosiddetta “zona rossa”, ha ripreso a circolare da una Regione all’altra.



Spesso gli economisti nelle previsioni si sbagliano e non considerano elementi imponderabili che la storia riserva sempre, quasi con ironia, spesso benevola oppure malevola. Lo schema o la visione sono sempre utili, ma vanno sempre piegati alle esigenze dei momenti che si vivono o si intravedono nell’immediato futuro.



Tuttavia i dati di questi mesi sono da incubo e non è difficile scostarsi dalle tendenze che delineano gli osservatori internazionali e lo spaccato che ha fatto, con grande realismo, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Ha detto il governatore: “Nello scenario di base la flessione dell’attività produttiva nel 2020 sarebbe pari al 9%, superiore a quella sofferta in due riprese tra il 2008 e il 2013, il calo si concentrerebbe nei primi due trimestri dell’anno, con un parziale recupero all’inizio dell’estate. Senza il sostegno alla domanda fornito dalle politiche di bilancio finora definite la contrazione dell’attività economica supererebbe l’11%”. Visco fa anche un altro scenario, che prevede una contrazione superiore al 13%.



Non è difficile immaginare quanta disoccupazione e quanta povertà comporterebbero due scenari del genere.

Passando dall’analisi alle realtà quotidiana, non si può nascondere che la paura di un ritorno del contagio oggi si unisce a una instabilità sociale, a sintomi di rabbia che monta in varie categorie sociali del Paese e in manifestazioni che sfuggono spesso a ogni realtà di partito esistente. E, giorno dopo giorno, si moltiplicano.

Il primo fattore che deve essere quindi preso in considerazione non  può che essere il tempo. Serve un intervento immediato per sanare situazioni di attività commerciali forzatamente chiuse per tre mesi, per colmare la mancanza di liquidità ormai cronica e insopportabile per diverse imprese e esercizi commerciali, che si pongono al limite la domanda se sia opportuno riaprire o chiudere definitivamente.

In una simile situazione, il fattore–tempo di intervento non può essere una variabile indipendente e non può essere slegato dallo stanziamento annunciato o promesso. In diverse categorie la necessità di liquidità immediata può trasformarsi in autentica rabbia sociale di fronte all’entità di un supporto statale promesso e non mantenuto. Sarebbe vissuto in modo esasperato con conseguenze imprevedibili.

Il secondo fattore da prendere in dovuta considerazione è il dialogo tra forze politiche e forze sociali, mirato a una ricostruzione il più possibile unitaria e coinvolgente. Qui siamo su un terreno strettamente politico che appare molto problematico. Non ci sono solo le “due metà del paese”, ma esistono focolai di contestazione incrociati. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, appare indebolito per tre ragioni. La prima è il ruolo ufficiale dell’opposizione parlamentare, ma ci sono due aspetti più insidiosi che arrivano dall’interno del governo e della maggioranza.

Lasciamo perdere le perenni, ormai noiose esasperazioni di Matteo Renzi. Ci sono toni e opinioni differenti in politica economica, scelte di interventi da parte del Pd che non collimano con quelle del premier. E nello stesso tempo ci sono differenze tra i 5 Stelle e lo stesso Conte. Il ricorso al Mes, ad esempio, in attesa degli interventi della Commissione e del Consiglio europeo, divide il governo e forse gli stessi grillini, con un “fuoco amico” che sembra incrociato, ma che ha al centro sempre la figura del presidente del Consiglio.

Quindi si aggiungono le prese di posizione dei sindacati che si riassumono in una parola d’ordine di Maurizio Landini: “Il governo scelga da che parte stare”. E dall’altra parte c’è l’aggressiva presa di posizione di Carlo Bonomi, nuovo presidente di Confindustria, che ha attaccato con durezza inusitata la linea del governo.

La politica è per antonomasia “l’arte del compromesso”, ma può essere anche la definizione costruttiva degli equilibri di potere. In un momento come questo il problema principale è quello di trovare un dialogo e un accordo a tutti i costi sul piano politico e sociale, pur nelle dovute differenze. È un obiettivo primario che si deve raggiungere, e che è stato perseguito e, pur tra mille difficoltà, è stato trovato persino nei tempi del drammatico dopoguerra italiano a ai tempi della guerra fredda.

Il terzo fattore è una visione e un modello di sviluppo nuovo per il Paese. In questo caso la scelta spetta non solo agli esperti, ma anche alla politica economica. La “consultazioni generali” auspicate da Conte dovrebbero precisare alcuni punti e bisognerebbe confrontare alcune ipotesi per poi scegliere. C’è chi sostiene una centralità della media e piccola impresa italiana internazionalizzata, quella che fu definita a suo tempo “quarto capitalismo”. C’è la necessità di stabilire un nuovo rapporto tra pubblico e privato, con una concezione di “Stato innovatore” che occorre definire. C’è chi punta a un rilancio dell’export e chi sottolinea la necessità di sostenere la domanda interna. Esiste un problema che non si può più rinviare o sottacere abilmente: una nuova regolamentazione della finanza (dopo la famosa deregolamentazione suicida che ha portato al 2008) ; un nuovo ruolo delle banche.

Forse il tempo necessario è arrivato con la decisione, questa volta ottima, della presidente della Bce, Christine Lagarde. Questa volta la signora non ha fatto gaffe. Mentre le Borse segnavano “rosso”, ieri ha allargato il piano di acquisti anti–Covid a 600 miliardi fino a metà del 2021, permettendo così di guadagnare tempo per i piani di intervento europeo.

Doppio merito della Lagarde è stato quello di infischiarsene della corte tedesca di Karlsruhe.

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