Considerata la condizione di ulteriore gravissimo indebitamento che la sciagura della pandemia ha determinato a carico delle nostre finanze, è da credere che il Recovery fund costituisca se non l’unica, la prevalente fonte di approvvigionamento di risorse per il perseguimento, nel breve e nel medio termine, di obiettivi politici. Nonostante alcune delle dichiarate intenzioni che hanno accompagnato l’istituzione del Fondo, è difficile confidare che valga davvero ad attenuare la condizione di diseguaglianza fattuale e giuridica che caratterizza l’assetto dell’Unione europea.
È più probabile che esso produca invece l’effetto di rafforzare la conduzione a livello europeo delle politiche dei singoli Paesi, con differenti ricadute in ciascuno di questi, legate non soltanto alla loro situazione economica, bensì anche alla disciplina nazionale dei rapporti di ciascuno Stato con l’Unione. Ancor più difficile ritenere quindi che si tratti di un elemento che preluda o avvii un reale processo federativo.
Qui interessa formulare qualche notazione di carattere costituzionale.
Il contesto italiano (a causa anche dell’emergenza sanitaria, affrontata però con mezzi diversi e anomali rispetto a quelli che la Carta fondamentale appresta: basti pensare al ricorso ai decreti del Presidente del Consiglio) è già fortemente segnato dalla progressiva erosione della partecipazione della rappresentanza parlamentare alla formazione delle decisioni di governo della collettività, nonché dalla tendenza alla costituzione di organi straordinari del plesso governativo (si pensi alla commissione straordinaria che si voleva istituire per la stesura delle linee guida preliminari ai veri e propri progetti da sottoporre ad approvazione in sede europea; ma ancor prima alla c.d. commissione Colao, istituita con Dpcm) segnando una trasformazione radicale della persona statale, che pare orientata quasi al tipo della fondazione e certamente a un “esodo” dal circuito ordinario della responsabilità politica e giuridica (illuminanti le richieste e le concessioni di clausole di esonero da responsabilità, a beneficio proprio dei componenti di tali organi straordinari).
Appare allora molto significativo che, a proposito delle decisioni relative al Recovery fund, si parli del ruolo del Parlamento come se fosse ottativo e non imperativo e, soprattutto, al di fuori di specifici riferimenti alla Costituzione.
Da ultimo, il Governo, per bocca del presidente del Consiglio, ha mostrato di voler coinvolgere le Camere, con linguaggio particolarmente espressivo: coinvolgere le Camere e cercare anche il consenso dell’opposizione, come se queste ultime non fossero una componente indefettibile delle Assemblee.
Tuttavia, nella migliore delle ipotesi, il Parlamento potrà delineare il quadro generale, all’interno del quale sarà prerogativa dell’Esecutivo l’elaborazione dei veri e propri progetti per i quali si chiede il finanziamento, rimessi poi alla dirimente valutazione delle istituzioni europee (nell’ambito delle quali, ancora una volta, il peso dei diversi Stati è funzione altresì dei modi e delle forme secondo i quali ciascuno di essi ha disciplinato, anzitutto a livello costituzionale, il rapporto con l’Ue).
A ben vedere, dunque, la vicenda del Recovery fund e, in primo luogo, il dibattito italico circa le funzioni della rappresentanza politica segna un’ulteriore tappa nel profondo mutamento della forma di governo, per la quale il Gabinetto nazionale acquista vieppiù il ruolo di organo esecutivo delle decisioni europee, conformemente del resto al disegno tracciato con i nuovi artt. 81, 97, 117 e 119 Cost., che marginalizzano il ruolo del Parlamento, ridotto a organo consultivo e di ratifica.
In tale quadro, si coglie meglio la ratio effettiva della proposta di riduzione del numero dei parlamentari, ai quali è rimesso ormai un ruolo esornativo.