La sequela di decisioni, prima del governo tedesco, poi del Senato degli Stati Uniti e quindi della Corte d’Appello inglese, di rimettere in discussione la vendita di armi all’Arabia Saudita hanno messo quest’ultima in una situazione difficile. Le difficoltà derivano non solo dalla netta presa di distanza da parte di alleati tradizionali come gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma dalle motivazioni sottostanti: l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi e la guerra senza scrupoli nello Yemen. Alle quali si aggiungono le continue e brutali repressioni di ogni dissenso, ultimamente contro le attiviste per i diritti delle donne, e le numerose esecuzioni pubbliche.



Inoltre, sembrano sorgere problemi anche con Emirati Arabi Uniti, Egitto e Sudan, alleati operativi nella guerra nello Yemen. Data la natura quanto meno autoritaria di questi governi, qui non si tratta di problemi di legittimità o morali, ma più probabilmente di una revisione dei rapporti di forza, approfittando del momento di debolezza del regime saudita.



Interessanti elementi emergono da un’analisi apparsa all’inizio di giugno su Foreign Policy. Per esempio, lo stallo in cui si trova la cosiddetta “Nato araba”, la coalizione promossa dagli Usa contro l’Iran, che avrebbe dovuto associare Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, Qatar, Oman, Giordania ed Egitto. Quest’ultimo avrebbe deciso di ritirarsi, sia perché non propenso a una rottura definitiva con l’Iran, sia per il ruolo dominante nella coalizione dei sauditi e degli Emirati. Tra l’altro, il regime militare egiziano è stato a suo tempo aiutato finanziariamente contro la Fratellanza Musulmana da sauditi ed Emirati, dando a questi ultimi un’arma di pressione sul Cairo.



Anche i rapporti con Abu Dhabi stanno mostrando crescenti divergenze, a partire dalla situazione nello Yemen, dove gli Emirati stanno assumendo una posizione contrastante con quella dell’Arabia Saudita. Ciò appare evidente nella regione di Aden, dove gli EAU utilizzano milizie proprie e collegate al movimento indipendentista locale. Aden è rimasta una repubblica indipendente fino all’annessione allo Yemen del Nord nel 1990 e i movimenti indipendentisti sono ancora forti. Si tratta di una zona molto importante, perché consente il controllo dell’accesso al Mar Rosso e quindi al Canale di Suez.

Arabia Saudita ed Emirati sono molto presenti anche in Sudan, anzi accusati da molti di sostenere le repressioni che i militari stanno attuando dopo aver fatto cadere il decennale regime di Omar al-Bashir. Il Sudan, a sua volta è presente militarmente nello Yemen ed è alla base di un nuovo attacco alla Amministrazione Trump, accusata di non aver incluso l’Arabia Saudita nella lista degli Stati che utilizzano bambini soldato. Infatti, diverse organizzazioni accusano i sauditi di utilizzare minorenni sudanesi contro gli Houthi e di aver organizzato un vero e proprio traffico, offrendo paghe che per molte famiglie sudanesi sono l’unico modo di uscire dalla miseria. Il Dipartimento di Stato ha inserito il Sudan nella lista nera, ma per l’Arabia Saudita si è limitato a citare “voci” su un possibile coinvolgimento.

Secondo quanto riporta il Financial Times, è in atto una corsa a investire nei porti della costa orientale africana, dal Sudan alla Somalia, ed Emirati e Qatar si distinguono particolarmente in questa gara. Si è già accennato alle strategie dell’EAU nell’area di Aden e la gestione di porti sull’altra riva dello stretto di mare darebbe ad Abu Dhabi un significativo controllo del Bab el Mandeb e, quindi, di Suez. L’interesse dell’EAU sembrerebbe soprattutto geopolitico ed economico e si può pensare a una coincidenza di interessi con il Cairo nel tenere aperta una via di comunicazione così importante.

Il Qatar ha probabilmente anche interessi di tipo più politico-religiosi, dati i suoi stretti rapporti con la Fratellanza Musulmana. Anche il blocco nei suoi confronti decretato dall’Arabia Saudita ha in buona parte questo sottofondo, lo scontro tra due concezioni estremiste dell’islam. Il blocco però sta danneggiando anche diversi Paesi del Golfo e si cominciano a delineare alcune prese di posizione critiche, come quella per esempio del Bahrein. Particolarmente preoccupante la controversia interna agli Emirati di cui parla Foreign Policy, derivante dal fatto che il blocco sta avendo effetti piuttosto negativi sull’economia di Dubai, il più popoloso dei sette emirati.

Da annotare, comunque, un tweet dello sceicco di Dubai, Mohammed bin Rashid: “Il vero ruolo di un politico è di facilitare la vita dell’economista, dell’accademico, dell’imprenditore, del giornalista e di altri … di rendere più facile la vita delle comunità e di risolvere le crisi, piuttosto che iniziarle e raggiungere risultati invece di distruggerli”. Un invito che farebbero bene a prendere in seria considerazione e al più presto tutti gli attori coinvolti nel puzzle mediorientale, ma estendibile ai politici di tutto il mondo.