Secondo l’Indice di replicazione diagnostica (RDt), la curva dei contagi, essendo superiore a 1 in tutte le regioni “aumenta molto rapidamente”, tanto che a parità di condizioni “potrebbe portare tra due settimane 5 regioni a superare la soglia del tasso di incidenza settimanale di 250 casi per 100.000 e altre 8 sopra 150 casi per 100.000”.
La stima, diffusa insieme a un position paper che contiene 5 raccomandazioni per gestire l’attuale fase pandemica, arriva dal gruppo di lavoro Made dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, che ha cercato anche di stimare l’Nnt (Number Needed to Treat), cioè il numero di persone che bisogna vaccinare per prevenire un’infezione, un ricovero in ospedale, uno in terapia intensiva, un decesso. In base all’incidenza e ai dati osservati nel mese di ottobre, “se avessimo raggiunto 367 soggetti, tra le 235.000 persone over 80 non ancora vaccinate, avremmo evitato un contagio; con 783 somministrazioni avremmo evitato un ricovero e con 1.365 vaccinazioni tra gli over 80 non vaccinati, avremmo evitato un decesso. Con l’aumento prevedibile dell’incidenza nelle prossime settimane, il guadagno in numeri assoluti di eventi evitati risulterà ancora maggiore”. Come potrebbe evolvere la pandemia? Quanto rischiamo? E cosa possiamo fare per evitare nuovi lockdown? Ne abbiamo parlato con l’epidemiologo Cesare Cislaghi, che fa parte del Made.
Che cosa ci dice oggi l’RDt, l’Indice di replicazione diagnostica, che è più preciso e previsivo dell’Rt?
L’RDt misura l’accelerazione della pandemia. Ci dice di quanto in una settimana aumenta o diminuisce la velocità di trasmissione. L’ultimo dato è pari a 1,36%, cioè attualmente in sette giorni i contagi aumentano del 36%. E’ in leggero calo, perché tre giorni fa era a 1,42.
Un trend positivo?
Attenzione: finché rimane sopra 1, significa che i contagi aumentano sempre. Quindi, non è la pandemia che cala, quanto che decelera solo la velocità con cui si diffonde.
Come si spiega l’aumento dei contagi in atto?
L’incremento è iniziato da metà ottobre. All’inizio i casi in più erano innescati soprattutto dall’introduzione del Green pass, che ha portato a un’escalation dei tamponi, arrivati anche a punte di 700mila al giorno, grazie ai quali sono stati identificati molti asintomatici fino a quel momento non diagnosticati. Ma questo balzo è durato pochissimi giorni. Poi ad aumentare è stata la contagiosità generale: i contatti fra le persone, legati a un certo allentamento delle restrizioni, hanno in un certo senso favorito la circolazione del virus.
Siamo in presenza di un aumento omogeneo a livello territoriale?
Sì, è omogeneo, e non solo fra le regioni, ma anche fra i generi e le fasce di età. Non è più selettivo.
Quanto dobbiamo preoccuparci e cosa dobbiamo aspettarci, anche sul fronte delle ospedalizzazioni e dei ricoveri in terapia intensiva?
I contagi avvengono in tre categorie differenti. In primo luogo, i non vaccinati, fra i quali il ricorso all’ospedalizzazione o alla terapia intensiva, fino purtroppo ai decessi, è come sempre. Poi ci sono i vaccinati entro i sei mesi e quelli oltre i sei mesi, dove si registra l’aumento dei contagi, ma l’incidenza di ospedalizzazioni e aggravamento della malattia sono molto più bassi.
E’ vero che tra i vaccinati si registrano più casi che tra i non vaccinati?
Certo, ma per un motivo molto semplice: i vaccinati sono 45 milioni e i non vaccinati sono poco più di 7 milioni. Il 20-25% dei vaccinati possono essere contagiati, ma solo il 5% di quel 25%, cioè l’1% del totale, potrebbe avere conseguenze severe della malattia. I non vaccinati, invece, possono essere colpiti dieci volte tanto dalla malattia grave.
E’ possibile stimare quanti siano ancora oggi i suscettibili al virus in Italia?
Possiamo stimare che siano un quarto dell’intera popolazione. In pratica, le persone attualmente suscettibili al contagio possono considerarsi i 7,5 milioni di non vaccinati e il 20% dei 45 milioni di vaccinati, cioè 9 milioni circa. Quindi, in totale abbiamo 16,5 milioni di italiani ancora suscettibili, il 45% i primi e il 55% i secondi. Se si arrivasse a 10mila contagi questi riguarderebbero 5.500 vaccinati e 4.500 non vaccinati. Se la percentuale di contagiati che necessitano di ricovero in terapia intensiva rimanesse costante e uguale all’attuale, gli ingressi giornalieri nei reparti di rianimazione sarebbero, a inizio dicembre, circa 70 al giorno, corrispondenti all’1,5% dei 4.500 contagiati non vaccinati e i decessi sarebbero all’incirca altrettanti.
A un mese dal debutto del Green pass, che bilancio possiamo fare? E’ uno strumento utile per fermare i contagi, per rallentare la cosa del virus, per garantire un buon tracciamento dei positivi asintomatici?
Il Green pass non dà la garanzia che non avvengano i contagi, ma riduce di molto la probabilità che ci siano dei contagi. Ma è difficile da farlo capire perché la gente è abituata a ragionare in termini di bianco o nero – se son vaccinato, sono guarito – e non in base alle probabilità.
Perché si gioca tutto sulle probabilità?
Il fatto che si richieda un tampone negativo al non vaccinato non ci dà la certezza che non sia infetto. Sappiamo benissimo che i tamponi antigenici rapidi hanno una sensibilità non elevata, tanto che non mancano i falsi negativi. Altrettanto si può dire di chi è vaccinato, non c’è la certezza che non sia contagiato, perché l’efficacia non arriva al 100%, ma la probabilità che sia infetto è molto, molto ridotta. Insomma, il Sars-Cov-2 è come l’influenza: uno vaccinato è molto probabile che non la prenda e, se la prende, con grande probabilità avrà un decorso leggero.
Ha senso proporre lockdown per i non vaccinati, come hanno deciso di fare in Austria e come si sta discutendo anche in Italia?
Non mi piace, perché provocherebbe forti tensioni sociali. Non credo sia una soluzione possibile. Quello che stanno facendo in Austria è proprio una scelta da ultima spiaggia.
In alternativa?
Bisognerebbe fare qualcosa in più per convincere i non vaccinati a immunizzarsi, non tanto i no vax ideologici, che sono comunque una minoranza, ma gli altri, quelli che non si fidano del siero. Devono trovare fiducia, e in questo un ruolo decisivo potrebbero giocarlo i medici di base, che vanno coinvolti di più e incentivati a farlo.
Dalla chiamata attiva degli over 80 non ancora immunizzati al potenziamento dei Dipartimenti di prevenzione proponete cinque regole base per gestire questa situazione. Se si adottassero, che risultati si potrebbero ottenere?
Si abbassa sicuramente la velocità di espansione della pandemia. Finché ci sarà anche solo un infetto, l’epidemia non sarà finita. Il problema è quanto cammina veloce. Bisogna invece farla camminare il più lentamente possibile, perché in tal modo diventerà più facile farla estinguere. Non c’è una misura drastica in grado di porre fine all’epidemia. Nemmeno la vaccinazione di massa, né il lockdown. Possiamo al massimo contenerla.
Arnon Shahar, responsabile task force Covid-19 in Israele, ha dichiarato che “usciremo dalla pandemia nella seconda metà del 2022”, mentre secondo Anthony Fauci, consigliere per la pandemia del presidente Biden, “la fine di questa crisi globale sanitaria è ancora lontana”. Si può sbilanciare in un pronostico?
Non ho il numero di telefono del virus e non posso chiederglielo. Battuta a parte, posso dire che la Spagnola durò poco più di due anni, che nella storia si è visto essere il tempo medio di queste pandemie. Però noi ancora non sappiamo che cosa vuole veramente fare questo coronavirus e molto dipenderà anche da noi, dai nostri comportamenti. Se gli consentiremo di continuare a mutare e a sviluppare varianti, gli diamo energia.
Quindi sarebbe il caso di partire con una rapida terza dose di massa?
Il vero problema è accelerare con le vaccinazioni in tutti quei paesi che sono in ritardo. La terza dose è importante, ma ancora di più è riuscire a vaccinare i non vaccinati. Qui va concentrato lo sforzo maggiore, perché i vaccinati anche dopo sei mesi conservano una copertura anticorpale, minore sì, ma c’è. I non vaccinati non ce l’hanno per niente.
(Marco Biscella)
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