Nel Regno Unito preoccupa la variante indiana, che secondo il ministro della Salute britannico, Matt Hancock, è responsabile, vista la sua elevata contagiosità, del 75% dei nuovi casi di Covid-19. Il ministro ha poi spiegato che oltre il 50% circa degli infetti è attribuibile proprio a questa variante e, in realtà, la percentuale potrebbe essere molto maggiore. In una settimana i nuovi casi sono cresciuti del 20%, i ricoveri del 10,8% e i decessi del 14% (ma in questo caso si tratta di numeri ancora molto bassi: 57 morti in sette giorni).



Un’inversione di tendenza che si è verificata nonostante una campagna vaccinale a tappeto, presa a modello da molti altri paesi, tra cui l’Italia: quasi tre quarti degli adulti britannici, oltre 38 milioni, hanno ricevuto una dose di vaccino contro il coronavirus e al 45% (25 milioni) sono già state inoculate entrambe le dosi. Come si spiega questa recrudescenza? Avendo utilizzato anche nel nostro paese gli stessi vaccini, dobbiamo aspettarci un simile scenario? Che cosa si può fare per scongiurarlo? Ne abbiamo parlato con Massimo Ciccozzi, ordinario di Statistica medica ed epidemiologia all’Università Campus Biomedico di Roma.



La variante indiana del coronavirus è causa del 75% dei nuovi casi di Covid-19 nel Regno Unito. E’ più contagiosa di quella inglese?

Sì, perché ha una mutazione che cambia un aminoacido: al posto di un acido glutammico la proteina Spike presenta una glutammina, che rende più stabile l’aggancio della proteina Spike al recettore Ace2. In pratica, la Spike, responsabile dell’aggancio, è normalmente mobile, tende a oscillare, quindi può agganciare oppure non farlo, perché l’oscillazione non la rende precisa. Con questa mutazione la Spike si stabilizza, oscilla poco e quindi aggancia più facilmente. E questo la rende più trasmissibile, più contagiosa.



Presenta anche sintomi più gravi?

No, a livello sintomatologico non abbiamo avuto casi gravi.

La variante indiana è presente anche nel nostro paese?

In Italia ci sono comunità indiane meno numerose e diffuse che in Gran Bretagna, quindi contiamo ancora ben pochi casi di variante indiana: secondo le ultime stime dell’Iss, la variante indiana è all’1%, mentre la variante inglese è ancora dominante, all’88,1%, ma in calo rispetto ad aprile.

E le altre?

Per quella “brasiliana” la prevalenza è del 7,3%, con trend in aumento, e le altre monitorate sono sotto l’1%.

Potremmo comunque trovarci anche noi nella stessa situazione del Regno Unito, con un aumento dei contagi legato alla variante indiana?

Difficile che possa accadere, a patto però che si continui con una sorveglianza genomica, anche a livello di singole comunità, indiana, brasiliana o sudafricana.

E lo stiamo facendo?

Gli inglesi hanno iniziato fin dal marzo 2020. Fare i sequenziamenti costa tempo e denaro e nel Regno Unito hanno investito molto sulla sorveglianza genomica, tanto che riescono a sequenziare in maniera random il 10% dei Covid positivi. Noi non possiamo ancora farlo, anche perché siamo indietro di almeno un anno e abbiamo ancora pochi dati. In più bisogna sorvegliare i viaggi, perché il virus si muove con le persone.

I vaccini non funzionano contro la variante indiana?

Funzionano, perché eliminano i sintomi della malattia: i vaccinati si infettano in maniera asintomatica e paucisintomatica. La protezione dei vaccini a mRna sulla variante indiana è pari all’88% e quella dei vaccini a vettore virale è poco sopra il 60%. Secondo il Public Health England, a 15 giorni dalla prima dose, però, la copertura è del 50% sulla variante inglese e solo del 33% su quella indiana. E ciò che vale in Gran Bretagna, vale anche per noi.

Quindi sarebbe il caso che non si allungassero troppo i tempi tra la prima e la seconda dose?

Esatto. Se la scheda tecnica vaccinale consiglia, per esempio per Pfizer, tre settimane tra la prima e la seconda dose, tre settimane devono essere.

In Gran Bretagna e in Italia però si è scelto di dilazionare i tempi di somministrazione…

Se sulla base di dati dei trial si dice che l’intervallo di confidenza può essere allungato fino a 41 giorni, mi devono spiegare perché alcune regioni fanno passare 35 giorni e altre 41. Se la motivazione è scientifica, vale per tutti. Se è “politica”, perché non abbiamo al momento dosi a sufficienza o perché appunto seguiamo il modello vaccinale inglese, dobbiamo però sapere che a 15 giorni dalla prima dose la copertura dei vaccini è più bassa.

L’Ema ha dato l’ok al vaccino per gli adolescenti. Vaccinare gli under 16 potrebbe rallentare il numero dei contagi e la diffusione delle varianti?

Assolutamente sì, specialmente in vista dell’estate. Gli adolescenti sono la categoria con la maggiore socialità, si aggregano più frequentemente e più facilmente e in quei casi il virus corre. Soprattutto gli adolescenti non devono avere quella che chiamo la “sindrome di SuperMario”.

Di che si tratta?

SuperMario ha tante vite e quando nel gioco ne perde una, non c’è problema perché restano le altre. Ma se si prende il Covid, bisogna poi vedere che segni lascia. Anche i giovani devono stare attenti, specie se hanno comorbidità, per esempio l’obesità o il diabete, che come quello genetico si può contrarre anche a 3 anni: sono fattori di rischio da non sottovalutare. I giovani devono capire che è meglio vaccinarsi e che anche dopo la prima dose va osservato il distanziamento e va indossata la mascherina.

Il premier Mario Draghi ha dichiarato che “finché la pandemia infuria, il virus può subire mutazioni pericolose che possono minare anche la campagna di vaccinazione di maggior successo”. Quanto è alto questo rischio?

Corriamo lo stesso rischio di tutti gli altri paesi, perché – grazie al cielo – abbiamo come preponderante la variante inglese. Ma se continuiamo a fare in modo che le infezioni e il virus si moltiplichino, resta alta la possibilità che insorgano nuove varianti che possono dare fastidio ai vaccini. Serve un altruismo epidemiologico ragionato.

Che cosa intende?

Ci sono vaste aree del mondo, come l’Africa e l’India, che sono sacche endemiche pericolose: noi quindi dobbiamo pensare non solo a vaccinare noi stessi, ma a immunizzare, con una campagna ampia, anche questi grandi paesi. Basti pensare alla variante del Camerun, che è nata nel cuore dell’Africa e che, partita dal Mali, è arrivata a infettare anche la Repubblica Ceca. Non ci vuole molto a far sì che possano arrivare in Europa e in Italia altre varianti ex novo, magari più insensibili ai vaccini.

(Marco Biscella)

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