Il grande Totò, riferendosi alla morte, diceva che era assimilabile ad una livella, ossia ad un passo obbligato che mette sullo stesso piano sia il potente che il disgraziato. A suo modo, anche questo invadente virus sta livellando tutti, sia i cittadini di un paese, sia paesi diversi. Infatti, è così contagioso che nessuno può credersi immune e così pernicioso da obbligare tutti a proteggersi per diverso tempo con il vaccino, almeno finché non si troverà una migliore soluzione.
Tutti si devono proteggere, anche se e quando opererà il principio epidemiologico della cosiddetta “immunità di gregge”, ossia quando almeno il 70% della popolazione è immune dal contagio. Dietro l’immunità di gregge si barricano certi che non vogliono vaccinarsi. Quando si raggiungerà il 70% di vaccinati – dicono costoro – anche il rimanente 30% sarà protetto dal virus.
L’affermazione è vera solo a metà, poiché il raggiungimento di determinati standard garantisce l’affievolimento del rischio di contagio collettivo, ma non la scomparsa del virus, il quale continuerà a contagiare soprattutto i non vaccinati e a provocare ricoveri e morti. Pertanto, dicono quelli che non vogliono vaccinarsi, che cosa importa al 70% immune se loro, i non vaccinati, sono disponibili a sopportare il rischio del contagio? È una questione di libertà, dicono. Il ragionamento sarebbe corretto se non ci fossero migliaia di persone che non possono vaccinarsi e se l’Italia non dovesse affrontare altri gravi problemi oltre alle infezioni da coronavirus. Ma analizziamo nel dettaglio quel 30%.
Tra il 30% che godrebbe dell’immunità di gregge pur senza essere vaccinato, la parte più consistente è quella dei giovani. La ragione fondamentale è che non c’è un vaccino sicuro per le prime età. Se si lasciassero sullo sfondo i minori, di quel 30% resterebbe meno della metà. Il 15% residuo è la parte di popolazione che non vuole o non può essere vaccinata. Nel caso dell’Italia, si tratta prevalentemente di popolazione della classe d’età di mezzo.
Le statistiche ufficiali (Figura 1) mostrano che, nella classe d’età tra i 25 e i 49 anni, il 70% ha assunto almeno una dose e il 56% è pienamente vaccinato. Quindi, una parte non trascurabile (il 14%) dei 25-49enni non è ancora del tutto immune.
Si noti che la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno avuto almeno una dose di vaccino supera quella della classe d’età 25-49 (i giovani sono al 74%, anche se solo il 52% è pienamente vaccinato). Gli anziani sono, invece, quasi tutti vaccinati: la quota supera nettamente il 90% dai 70 anni in su, la proporzione è vicina al 90% anche tra i 60 e i 69 anni ed è sopra l’80% anche tra i 50 e i 59. Mancano all’appello proprio le classi d’età di mezzo.
Figura 1. Percentuale di popolazione italiana che ha avuto almeno una dose di vaccino al 27 agosto 2021, per classe d’età (fonte: Our World in Data)
Nel complesso, in Italia, le prime vaccinazioni sono prossime al fatidico 70%: siamo, infatti, al 69,8% di prime dosi, tuttavia le vaccinazioni complete sono indietro di 10 punti percentuali. Grazie alla condizione favorevole creata dal green pass, durante l’estate sono stati vaccinati molti giovani tra i 12 e i 17 anni. In questo modo, si è alzata la percentuale di italiani che hanno avuto almeno una dose di vaccino, ma l’aumento ha dato scarso esito sul tasso di contagio.
Tra l’altro, i dati storici sull’infezione dimostrano che, quando sono contagiati, i giovani sono per lo più asintomatici, cioè superano la malattia con danni limitatissimi, escluso i rari casi di interazione dell’infezione con altre gravi patologie. Quindi, le cose non sono destinate a cambiare insistendo sui giovani e i giovanissimi.
Siccome i contagi non si annullano, è evidente che una sola dose di vaccino non è sufficiente e fa pensare che, con il coronavirus, l’immunità di gregge richieda qualche vaccinazione in più: non a caso, il generale Figliuolo parla di vaccinare l’80%, invece del 70%. Comunque sia, un certo numero di contagi quotidiani si dovrà considerare fisiologico, anche a vaccinazione conclusa.
Ritorniamo alla necessità del vaccino. È necessario che facciano il vaccino tutti coloro che possono essere contagiati e che, per questo, rischiano conseguenze per se stessi e trasmissione del contagio ad altri. Non riusciamo a capire fino in fondo perché si metta in discussione l’obbligo della vaccinazione per chi svolge funzioni che lo/la porta a contatto con il pubblico. Lo svolgimento di attività nella sanità, nella scuola, nell’amministrazione pubblica, nei trasporti, lungo la catena alimentare e, in genere, di attività produttive o servizi che rischiano di essere veicolo di contagio impone una totale vaccinazione degli addetti.
La categoria di popolazione che da tempo ragiona con il freno a mano tirato ha un’età intermedia, la più produttiva, quella su cui grava l’obbligo di produrre anche per i minori e per gli anziani. Non è una categoria che si convince battendosi il braccio, facendo una V con le dita, né la si rende consapevole del contagio diffondendo i dati sgangherati che risultano dal sistema di tracciamento. È necessario ragionarci seriamente, rendendo le persone consapevoli che il protrarsi della diffusione del virus inciderà per molti anni a venire sull’economia e sulla società. È necessario far loro capire quanto è necessaria la volontà di discontinuità.
La prima cosa da fare è diffondere dati certi sull’immunizzazione e fare indagini mirate per individuare le occasioni e i luoghi di contagio. A livello nazionale, il contagio è ormai limitato a pochi casi e il rischio di conseguenze letali è ridotto. Il contagio si ridurrà via via che aumenteranno le vaccinazioni. Tuttavia, il rischio di contagio non sarà mai nullo: col virus dovremo convivere, dobbiamo solo capire come. Quanto prima considereremo normale questa convivenza, tanto prima ne usciremo.
Ecco perché va fatta una indagine sierologica su quanti sono gli immuni, vuoi grazie alla vaccinazione, vuoi per essere stati contagiati e aver sviluppato naturalmente gli anticorpi. In molti casi l’energia anticorpale generata naturalmente è superiore a quella di alcuni vaccini. Si saprebbe così anche quanto dura l’immunità da qualunque fonte generata, invece di andare per impressioni, per sentito dire, come oggi avviene.
Poi va messa in funzione un’indagine di lungo periodo sulla frequenza dei contagi e sulla relazione tra contagi e condizioni personali e sociali in cui è avvenuto. Solo così sapremo quanti sono davvero i contagi nel Paese, dove e come avvengono e potremo intervenire in modo mirato e, nel migliore dei casi, prevenire.
Se mettessimo in funzione queste due indagini statistico-epidemiologiche, l’Italia potrebbe andare fiera di essere stata la prima e, in ambito internazionale, varrebbe più che se avessimo vinto una seconda volta i campionati europei di calcio.
Per completare il quadro, mostriamo i dati nazionali sul contagio e sulle conseguenze recenti al confronto con le fiammate epidemiche precedenti. Dalla Figura 2 si può apprezzare che la fiammata epidemica corrente, causata prevalentemente dalla variante Delta, ha superato il tetto della curva ed è in via di esaurimento; dalla Figura 3 si può apprezzare che i danni causati dalla Delta sono appena percettibili, almeno rispetto alle tre precedenti ondate infettive. Tuttavia, la mortalità è in leggero aumento, cosa abbastanza prevedibile perché la mortalità segue di circa due settimane il contagio. I dati sulla mortalità dovrebbero, cioè, stabilizzarsi o diminuire a partire dalla prossima settimana.
Figura 2. Nuovi contagi da Covid-19 in Italia; ultima rilevazione 27 agosto 2021 (Fonte: Johns Hopkins University – CSSE; dati settimanali)
Figura 3. Morti da Covid-19 in Italia; ultima rilevazione 27 agosto 2021 (Fonte: Johns Hopkins University – CSSE; dati settimanali)
I dati prodotti permettono di affermare che il vaccino ha smorzato le frequenze del contagio e ne ha limitato le conseguenze sanitarie. Questo fenomeno si era già constatato in altri Paesi che sono partiti prima di noi con le vaccinazioni (Israele e Regno Unito). Evidentemente, il vaccino riduce l’intensità della carica virale in circolo, così che gli eventuali contagi causano minori danni. Anche per questo motivo, acquisterebbe un alto valore conoscitivo un’indagine sierologica che monitori gli effetti di eventuali ripetizioni delle vaccinazioni e il possibile insorgere di focolai dello stesso o di altri virus.
Il virus di Wuhan ha avuto effetti dirompenti, ma ne stiamo uscendo, anche se con qualche impaccio residuo. L’immagine odierna del virus oggi è rappresentata dalla mascherina, più che dalla pallina di grasso rosso con protuberanze, come era rappresentato il virus quando quasi nessuno lo conosceva. Vale a dire che oggi lo si rappresenta in ragione dei suoi effetti sociali e non più per la sua peculiarità biologica. Le persone lo stanno dando per scontato, stanno imparando a conviverci, hanno spostato l’attenzione su chi partecipa al contenimento dei suoi effetti e chi no.
Il virus ha obbligato i cittadini ad allargare i confini dei propri ragionamenti, estendendoli sia alla più vasta comunità nazionale, sia ai restanti Paesi del mondo. Basti pensare alle difficoltà create ai rapporti sociali diretti, al viaggiare all’estero, alle opportunità di lavorare e di apprendere, persino alla volontà di spendere. Indirettamente, la pandemia ha fatto capire l’importanza di tante opportunità che prima erano date per scontate, ma che possono improvvisamente venire a mancare. Tra l’altro, non è impensabile che ci siano dietro l’angolo altri virus o altri impedimenti pronti a scatenare i propri effetti nefasti.
La pandemia ha fatto capire che siamo tutti interrelati e che il benessere di ognuno dipende anche dagli altri. Insomma, il virus è stato una livella sociale: non solo non ha fatto differenze tra persone, ma sta facendo capire che, siccome la nostra salute dipende anche dagli altri, siamo tutti un po’ più uguali.
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