Da gennaio, in media, il Covid contagia nel mondo 700mila persone: a fine dicembre erano 660mila e un mese prima non superavano le 460mila. Il virus galoppa sulle ali di un’evoluzione genetica che, sotto forma di varianti, lo rafforza e lo fa diventare altamente contagioso, rendendo sempre più facile per la proteina Spike trovare la “chiave” giusta per forzare la “serratura” delle cellule umane e infiltrarsi nel nostro organismo. Una recrudescenza testimoniata da nuovi ceppi, come la variante inglese, localizzata addirittura in 50 paesi, o sudafricana, diffusa in 20 Stati, o brasiliana, già arrivata in Giappone e considerata dall’Oms “preoccupante”. L’irraggiamento di queste variante è un problema sottostimato? Quanto possono essere pericolose per l’evoluzione della pandemia? La loro numerosità e velocità di propagazione possono mettere a repentaglio l’efficacia delle campagne vaccinali in atto? Lo abbiamo chiesto a Francesco Broccolo, biologo, specializzato in Microbiologia e Virologia, docente di Microbiologia clinica nell’Università Milano-Bicocca.



Inglese, brasiliana, sudafricana, americana, giapponese: ci sono in giro troppe varianti?

Se i nuovi contagi continuano a crescere in misura numerosa come adesso, le varianti aumenteranno. Il virus ha avuto più di un anno per sperimentare e selezionare le mutazioni: ne ha già fatte migliaia e la maggior parte non recano alcun vantaggio al virus. Le varianti invece sono mutazioni che apportano vantaggio perché cadono nella proteina Spike, ne cambiano la conformazione così da facilitare l’entrata del virus nella cellula, aumentandone la trasmissibilità, pur trovando poco recettore Ace-2, come nei bambini.



Siamo arrivati a un punto cruciale dell’epidemia?

Alcune varianti sono comuni: per esempio, la sudafricana, che è più contagiosa, ha alcune mutazioni in comune con la variante inglese. In questo momento parlerei di epidemia di nuove varianti nella pandemia. E tutto questo sta aggravando pesantemente il quadro, le previsioni a breve sono fosche, tant’è vero che nella comunità scientifica cresce il consenso a favore di un lockdown immediato, non prolungato ma serrato, tale da poter consentire una vaccinazione più rapida. Ma c’è un perché, che va ben spiegato, in questo passaggio.

E quale sarebbe?



Nuovi contagi in aumento determinano nuove mutazioni e quindi nuove varianti virali. Più contagi significano più mutazioni, alcune delle quali andranno a vantaggio del virus. Diventa una corsa a due.

In che senso?

La corsa del virus con le sue varianti e la corsa dell’ospite, cioè dell’uomo, con il vaccino. La nostra difesa è fare tutti la vaccinazione il più velocemente possibile, ma nel contempo occorre ridurre i contagi, perché il virus sta sperimentando nuove varianti, che possono complicare due aspetti: i farmaci monoclonali, in via di approvazione, visto che siamo ancora del tutto scoperti sul fronte dell’armamentario farmacologico, e il vaccino.

Sappiamo però che i dati preliminari del vaccino Pfizer non sono negativi rispetto alle varianti. Non è così?

Vero. Ma come è stato valutato il vaccino sulle varianti? Utilizzando mutazioni prese singolarmente e non l’intera variante, che contiene molte mutazioni. In sostanza sono stati valutati gli anticorpi prodotti dalla vaccinazione su 20 soggetti, quindi su un campione limitato di casi, e osservando come funzionavano sulle singole diverse mutazioni della proteina S presenti nelle varianti, ma non sulla variante in toto. Così però si sottostima il problema e sarei un po’ più cauto nell’affermare che va tutto bene. Diciamo che al momento non ci sono dati negativi.

Mascherine, distanziamento e igiene delle mani non potrebbero bastare?

Sono il requisito minimo, ma in questo momento sembrano non bastare più. Lo vediamo in Germania, dove pure ci sono misure stringenti eppure contano più di mille morti al giorno. Ecco perché nella comunità scientifica si fa largo l’idea di un lockdown, perché bloccando i contagi, si bloccano le possibilità di nuove varianti.

Finora le varianti hanno reso il virus più trasmissibile. Potrebbero arrivare mutazioni che lo rendono più aggressivo?

Sì, anche se al momento non è stata dimostrata una maggiore letalità, ma è abbastanza ingenuo pensare che un virus al momento molto più trasmissibile, soprattutto in una popolazione di età inferiore ai 20 anni, non possa diventare anche più aggressivo e letale.

La stagione invernale è particolarmente vantaggiosa per i virus respiratori. Con l’arrivo della primavera e poi dell’estate le mutazioni potrebbero calare o sparire del tutto?

No, le mutazioni rimangono. Dobbiamo cercare di eliminare le varianti vantaggiose per il virus e quindi siamo noi a dover correre con i vaccini e a cercare di ridurre i casi di contagio. Il virus fa il virus e non farà a meno delle varanti, che son il frutto di una selezione positiva. Quindi dipenderà da noi.

Possiamo sperare che le varianti vantaggiose per il virus scompaiano da sole?

No. Scompare il virus non variato e mano a mano emergeranno le varianti, cioè il nuovo virus più forte.

Il proliferare delle varianti può mettere a rischio l’efficacia dei vaccini?

Se la vaccinazione, così come una terapia farmacologica, andrà troppo per le lunghe, si verrà a creare una pressione selettiva che farà ulteriormente emergere la variante del virus. L’arrivo della primavera non sarà una pressione selettiva. Il virus è sì sensibile alla temperatura, ma non mi aspetto che la variante venga annientata dal caldo.

L’Oms ha tenuto sul problema delle varianti una riunione d’urgenza. Dobbiamo davvero preoccuparci?

Sì, senza dubbio. Prima dell’insorgere di queste varianti, oggi così diffuse, ero francamente molto più ottimista e più convinto che fosse necessario fare lockdown chirurgici e territoriali.

E adesso?

Sono più preoccupato, perché una variante, quando arriva in una zona, si diffonde, non ha confini, è molto trasmissibile e pone problemi ovunque.

Infatti ceppi di queste varianti sono già stati trovati anche in Italia…

Finora ne sono stati rintracciati 20, ma abbiamo appena iniziato a cercare e li troviamo solo con i tamponi positivi. Poi però non lo sequenziamo, quindi a tutt’oggi non conosciamo in Italia il quadro epidemiologico delle varianti, cioè non sappiamo quante ce ne sono numericamente né quanto sono diffuse.

(Marco Biscella)

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