Mentre entrano in vigore le nuove misure del governo Draghi, il ministro Speranza esprime preoccupazione sull’andamento della pandemia. Una primavera difficile, quella che si profila, e che, dopo settimane di appiattimento verso l’alto della curva, sembra annunciare un’improvvisa accelerata dei contagi, colpendo in particolare proprio quelle regioni che erano state meno investite dalla prima ondata: Molise e Basilicata, appena passate in rosso. Ma la terza ondata, che sembra aver interrotto l’andamento piatto della seconda lunga ondataee, annunciandosi nel momento forse più inatteso, colpisce anche territori già profondamente segnati dal virus, come Brescia e in parte l’Emilia-Romagna. Dall’inizio della pandemia virologi ed esperti preannunciavano le tre ondate che classicamente accompagnano il dilagare di virus pandemici nella storia.



Siamo, dunque, agli ultimi colpi di coda? Quanto le nuove restrizioni, ancora più frazionate territorialmente, riusciranno ad arginare la forza di quella che viene già chiamata la terza ondata? Quali sono gli andamenti che osserviamo? Davvero ci aspetta una primavera durissima prima dell’inizio dell’estate, che dovrebbe darci (come l’anno scorso e con l’aiuto dei vaccini) di nuovo respiro? E l’incognita delle varianti quanto finisce per pesare, veramente? Lo abbiamo chiesto a Paolo Bertaricercatore di statistica nel dipartimento di Statistica e metodi quantitativi dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.



Avevamo osservato un appiattimento verso l’alto delle curve, poi hanno ricominciato a crescere: la seconda ondata ha lasciato il posto alla terza?

Trovo che questa questione seconda-terza ondata sia piuttosto stucchevole: questa non è una terza ondata, per arrivare una terza ondata dovrebbe esser finita la seconda. Quella attuale mi sembra più una ripresa della seconda ondata, che ha subìto un’impennata dovuta alle varianti, soprattutto quella inglese. La seconda ondata non poteva finire perché un lockdown non è stato fatto. Mentre la prima ondata si è conclusa con un abbattimento completo di tutte le curve – contagi, ospedalizzazioni e decessi –, quest’anno la cosa è andata diversamente. 



Cioè?

Si è scelto di adottare le misure basate sui colori, che hanno un senso, per carità, perché localizzano diverse aree di gravità della diffusione del contagio. Però è anche vero che la zona gialla non funziona. Lo si è visto in Veneto e anche in altre aree: i numeri non sono scesi finché non sono state adottate nuove misure.

Le nuove misure cambieranno il corso precedente?

La zona arancione rafforzata è una novità della settimana scorsa che porta con sé due indicazioni. La prima – è stato osservato ad esempio con Perugia – è che è comunque possibile emettere dei provvedimenti che parcellizzano ulteriormente il territorio, individuando micro-aree in cui c’è una diffusione molto più virulenta, che necessita di intervento immediato.

La seconda?

Risulta difficile da capire come si distingua, rispetto alla zona arancione o rossa precedenti, la zona arancione rafforzata. Sostanzialmente prevede la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, ma lasciando aperti i negozi. Questa è ancora una contraddizione, ma soprattutto la mia impressione è che non si sia ancora capito, dopo un anno, che il virus deve essere anticipato, non rincorso. Nel momento in cui tu osservi l’innalzamento della curva dei ricoveri dovresti aver visto già un aumento dei contagi. I contagi aumentano almeno una settimana prima, in quel momento sai bene che c’è una diffusione del virus che non stai controllando.

Quindi basterebbe anticipare il virus guardando i contagi, invece si continua a rincorrerlo a posteriori?

È un anno che persone molto più esperte di me dicono costantemente questo, raccomandano di anticipare il virus e non di rincorrerlo. A me pare lo si stia ancora rincorrendo, basti pensare a Brescia.

In che senso?

A Brescia si è capito che le cose erano scappate di mano almeno da 10-15 giorni. I ricoveri avevano ripreso a crescere. Forse in questo momento è necessario un ulteriore sforzo per contenere la variante inglese. Peraltro, ce lo dicono gli inglesi stessi che avendo più casi lo hanno osservato, questa variante ha una contagiosità che è stimata essere del 30-50% superiore rispetto alla precedente forma virale. Per fortuna non si è osservata, almeno sulle evidenze numeriche attuali, una maggiore letalità. È chiaro però che se il contagio si diffonde di più sarà anche questa una conseguenza diretta: se ci saranno più contagi, ci saranno anche più ricoveri e decessi.

Quanto pesano le varianti sui numeri, è possibile al momento osservarlo?

È ancora presto; dai dati che ho letto sulle rilevazioni sui tamponi, fino alla settimana scorsa c’era circa un 25-30% di varianti, ma si sta stimando che nel giro di una settimana la variante sarà prevalente sulla precedente forma virale. Quello che si rischia, andando avanti così, è che la campagna vaccinale diventi poco efficace e che i numeri diventino esplosivi nel giro di 10-15 giorni. Siamo ancora in ritardo nel prendere misure efficaci per raffreddare il livello del contagio, dopo un anno ancora si parla di quando riaprire invece di concentrarsi sul fare veramente un ultimo sforzo.

L’impatto del vaccino ancora non è leggibile perché il virus fa una corsa contraria e opposta cavalcando le varianti?

L’unica cosa che sappiamo in questo momento sono le evidenze che derivano dalla campagna vaccinale in Israele e in Gran Bretagna. 

E cosa hanno evidenziato?

Che nel momento in cui il vaccino è stato somministrato a una quota sufficiente di popolazione tutte le curve epidemiche si sono raffreddate, questa è una prima evidenza positiva. Noi osserviamo forse una cosa simile sul personale sanitario, ma anche sui vaccini mi pare che siamo in ritardo, e non credo sia solo una questione di disponibilità. Se guardiamo le informazioni rilasciate dal governo anche oggi (1 marzo, ndr) sulla percentuale di dosi di vaccino somministrate esiste un’eterogeneità molto alta tra le regioni italiane.

Ci dica di più.

Si arriva all’80-85% in regioni più piccole, dove magari la gestione è più facile, mentre ci sono regioni che sono più indietro, come, di nuovo, la Lombardia. Però non è solo questo, ci sono regioni comparabili alla Lombardia come Toscana ed Emilia-Romagna che sono, rispettivamente, al 76% (come anche il Piemonte) e al 71% di dosi somministrate su quelle disponibili. La Lombardia è al 65%, e se su un milione di dosi consegnate ne vengono somministrate 670mila, vuol dire che c’è ancora un avanzo di dosi. E poi c’è una serie di cose che ancora mi risultano incomprensibili.

Ad esempio?

Ad esempio il fatto che noi accademici avremo la fortuna che da domani inizia per noi la campagna vaccinale, mentre non si sa quando inizierà nelle scuole, parlo della Lombardia, mentre Piemonte e Toscana hanno già avviato la campagna vaccinale per gli insegnanti.

Sarà davvero una primavera difficile?

Il ministro Speranza l’ha detto ieri, ma le persone che se ne occupano dal punto di vista scientifico lo hanno detto nelle settimane scorse: la variante inglese purtroppo ha una rapidità di diffusione molto elevata. Ancora oggi sono 8 le regioni gialle, è difficile pensare che in queste regioni non ci sia la variante inglese. La Sardegna beneficia dell’isolamento territoriale e geografico, ma è difficile pensare che le altre regioni riescano a non vedere la diffusione del virus.

Le regioni ora più colpite sono quelle che hanno subìto meno l’impatto della prima ondata, e storicamente si parla di tre ondate per le pandemie. È ingenuo pensare che ci troviamo davanti agli ultimi colpi di coda della pandemia?

Se questo fosse vero, guardandola dall’altro lato, in questo momento a Brescia avremmo una situazione molto serena. Brescia è stata con Bergamo, Cremona e Lodi una delle località più colpite dal virus e ora il sistema è di nuovo sotto stress. Nella prima ondata non c’è stato un vero tracciamento e anche in questa seconda fase il numero di contagi ha portato a perdere il controllo del tracing. 

Perché di nuovo Brescia?

Forse perché la variante inglese è arrivata prima e ha trovato in alcuni focolai un terreno più fertile che altrove. A Brescia si sono osservati i primi aumenti di contagi significativi, e anche di ricoveri, ben prima che venisse adottata la misura della zona arancione rafforzata. Questo ritardo nella politica di adozione di misure di contrasto per la riduzione del contagio è un ritardo che si ripercuote sul sistema sanitario. In questo momento è in forte difficoltà a Brescia, ma comincia a esserlo anche in Lombardia, dove le terapie intensive hanno superato quota 400, la quota soglia in cui si comincia a capire che il sistema va sotto stress. 

Tornando invece al dato nazionale?

A livello nazionale da tantissimo tempo abbiamo ormai circa 300 morti al giorno. È una scelta che è stata fatta, quella di preservare l’economia rispetto all’idea di un lockdown come quello di marzo, in qualche modo “accettando” che si osservasse un certo numero di decessi giornalieri. Siamo arrivati a 97mila decessi nel paese dall’inizio della pandemia a fine febbraio, questo vuol dire che nel giro di una settimana supereremo le 100mila morti registrate nel nostro paese per Covid. Ma non stiamo sacrificando solo le vite, stiamo sacrificando tante altre cose.

Quali?

La scuola, ad esempio: siamo uno dei paesi che ha chiuso le scuole per il maggior numero di settimane.

E sarà un’altra emergenza, forse la più grande dopo la pandemia.

Il presidente Draghi l’ha detto chiaramente nei primi discorsi fatti in questa nuova veste: c’è la necessità di recuperare al più presto quanto perso in termini di formazione e apprendimento, ci saranno strumenti, come le prove Invalsi, per misurare la perdita, confrontando i risultati di quest’anno con quelli pre-pandemici. Bisognerà mettere in atto azioni per recuperare questo gap, un gap che si ripercuote negli anni, perché l’impatto è anche di lungo termine. Stiamo perdendo quasi due anni scolastici e dobbiamo capire come recuperarli.

(Emanuela Giacca)

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