L’articolo di Peter Doshi pubblicato sul British Medical Journal getta un sasso nello stagno dell’immobilità concettuale che caratterizza la nostra attuale percezione del Covid-19. Il Covid finirà, a suo avviso, “quando spegneremo i nostri schermi e decideremo che altri problemi sono di nuovo degni della nostra attenzione”. L’affermazione non è affatto priva di fondamento. Infatti – come mi è stato possibile osservare in Società in cerca di respiro. L’Italia e le pandemie – se le pandemie sono un fatto epidemiologico, l’attenzione che vi si riserva varia molto da una pandemia all’altra. E se il loro affermarsi può scuotere l’opinione pubblica per il numero dei contagiati e quello dei decessi, la presa d’atto della loro scomparsa avviene quando l’opinione pubblica smette di farvi attenzione, distratta da un problema più grave o attratta da un progetto politico che prospetta nuove opportunità di vita, sostenute da altrettanti segnali che ne rivelino la fondatezza.
In occasione del Covid-19 stanno interagendo tra loro almeno tre variabili differenti. La prima è di tipo culturale e concerne l’attenzione attualmente sproporzionata data ai problemi della salute fisica e psichica, fino ad arrivare a ignorare l’evidenza della morte come categoria irrimediabile del vivere. La seconda è di tipo sociale e riguarda la struttura, l’estensione e la qualità attuali delle reti di comunicazione, capaci di amplificare in modo inatteso e incontrollabile notizie diversamente attendibili. Mentre la terza è di tipo politico e concerne le strategie che i diversi governi nazionali hanno scelto di praticare dinanzi al virus e che oscillano dal franco sottodimensionamento al più radicale allarme sociale e ai provvedimenti di chiusura che vi fanno seguito.
Ciascuna di queste variabili obbedisce apparentemente a logiche diverse, non riassumibili tra loro, ma in realtà la tendenza all’uniformità sembra essere difficilmente contestabile. La prima, quella culturale fondata sull’ipertrofia della “ragione sanitaria”, ci caratterizza da almeno quarant’anni e difficilmente abbasserà la guardia fino a quando non si riterrà debitamente riassicurata o sarà distolta da una nuova emergenza altrettanto globale. Ma anche la seconda, quella dei media amplificati e potenziati, dal momento che si estende in modo tale da riprodurre in gran parte l’opinione pubblica diffusa, costituirà la cassa di risonanza di quest’ultima, sottoscrivendone quindi paure e timori.
In particolare, è proprio l’universo mediatico che, inseguendo la paura collettiva, sembra essere indifferente rispetto ad almeno tre fatti inoppugnabili che, andando in direzione opposta, permetterebbero di arginarla, in quanto dimostrano che:
a) il Covid è in realtà una pandemia a basso tasso di letalità, visto che i guariti e dimessi dagli ospedali sono di 36 volte superiori ai decessi (quasi 5 milioni dinanzi a 136mila) senza contare tutti i milioni di asintomatici;
b) i decessi per Covid sono stati sovradimensionati, dichiarando tali anche quelli sopravvenuti per altre patologie, ma per i quali, una volta rintracciata la presenza del virus, si è scelto di attribuire a quest’ultimo l’esito fatale;
c) all’attuale numero di contagiati (altissimo) non corrisponde nessun affollamento nei reparti di rianimazione e quindi i vaccini hanno registrato un indiscutibile successo.
Ignorare, in parte o in tutto, questi fatti estendendo la paura collettiva non è privo di conseguenze.
Per chi è anziano questo comporta uno stadio di ansia permanente, il precipitare nell’insopportabile prigione di una bolla mediatica che lo condanna a timori permanenti, irresponsabilmente e colpevolmente rilanciati. Per i più giovani significa annegare nella palude della didattica a distanza, nell’allentamento dei legami con l’università e nel limbo della sospensione costante dei progetti formativi, compromettendo ancora di più il già precario quadro di inserimento professionale.
Non resta che la variabile politica che, tuttavia, può esercitarsi solo a condizione di poter contare su di una personalità autorevole. Non è un caso se solo l’autorevolezza di Mario Draghi e il suo concetto di “rischio ragionato” abbiano reso possibile il ritorno a una situazione di semi-normalità nel mese di aprile di quest’anno. In realtà, l’incremento della paura, alimentata dai mantra della “sicurezza” e dell’ossessivo “non abbassare la guardia”, detta regole e comanda comportamenti ai quali nessun partito politico nazionale può opporsi se non esponendosi a un linciaggio mediatico senza precedenti e, di conseguenza, a un ridimensionamento elettorale che vuole ragionevolmente evitare.
Il fatto di essere diventati tutti prigionieri della paura non è a sua volta privo di spiegazioni. Siamo tanto più prigionieri del Covid quanto più, da tempo, il futuro ci appare oscuro e ci troviamo accampati sul presente del qui e ora. E non è affatto una buona notizia quella di dover attendere un’altra emergenza per smettere di preoccuparci del Covid per occuparci di qualcos’altro: una società che vive transitando da un’emergenza all’altra è in realtà una società in criticità infinita. Non c’è infatti mai stata nessuna società che sia potuta vivere senza prefigurarsi un futuro all’orizzonte, senza una vita migliore verso la quale fosse possibile dirigersi.
Non c’è vita che valga la pena di essere vissuta se non si ricomincia a progettare e a riedificare. Una vita senza progetto è una vita già condannata al suo solo stato puramente biologico. Ogni società vive in realtà di una progettualità condivisa e non c’è collettività che non si alimenti di una tale speranza, senza la quale resta accampata in un presente senza memoria, né progetto.
Per uscire fuori da una paura che oramai si alimenta da sola occorrerà pertanto ricostruire una tensione al futuro, una nuova possibilità per la quale impegnarsi. Il lavoro da fare è considerevole, ma non è la prima volta che ci accade di viverlo. Ed è questa la vera posta in gioco, l’unica a poterci tirare fuori dal pantano nel quale, entrando nella dinamica dell’emergenza permanente, abbiamo finito con l’arenarci.
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