Il tema caldo del momento è certamente rappresentato dalle “riaperture”, tema rispetto al quale si ascoltano spesso posizioni diverse espresse dai diversi leader politici. Nella conferenza stampa del 26 marzo, il premier Mario Draghi a riguardo ha affermato: “Se riaprire o no dipenderà dai dati. Le misure hanno dimostrato nel corso di un anno e mezzo di non essere campate per aria. È desiderabile riaprire, la decisione se farlo o meno dipende dai dati”.



Da persona avvezza a prendere decisioni di importanza cruciale per la collettività, l’ex Governatore della Banca centrale europea ha presente il motto che ben conosce ogni buon manager e che è stato espresso in forma sintetica da Peter Ferdinand Drucker, uno dei fondatori dell’economia manageriale: “Non puoi gestire ciò che non misuri”. La comprensione di ogni problema decisionale in condizioni di incertezza passa, infatti, prima di ogni altra cosa, da una raccolta dei dati la quale sola è in grado di fornire una solida base per iniziare a pianificare la risoluzione dei problemi.



Torniamo, dunque, su un tema da noi già trattato in passato: la centralità della qualità del dato statistico sulla base del quale devono essere prese le decisioni e i provvedimenti utili a fronteggiare l’emergenza epidemica. E i dati empirici recenti, purtroppo, non inducono eccessivo ottimismo con il numero di decessi che non ha ancora toccato il picco della terza ondata ed è ormai sostanzialmente stabile nelle ultime 3 settimane su valori giornalieri superiori a 400, i posti di terapia intensiva occupati fermi da un paio di settimane su una media settimanale di circa 3.600 (sebbene con gli ingressi in lieve calo da un paio di settimane), e con il tasso di positività (il primo parametro a rivelare cambi di tendenza) che solo nell’ultima settimana comincia a mostrare un sia pur lieve calo.



Si noti che i dati che ho menzionato non si riferiscono ai dati giornalieri, ma alle medie degli ultimi sette giorni. Sarebbe infatti fuorviante guardare al dato così come va formandosi giorno per giorno tentando di interpretarne gli andamenti in crescita e in diminuzione. Tutti hanno notato, ad esempio, come il numero di decessi domenicali sia sostanzialmente più basso di quello dei giorni precedenti e di come l’inverso avvenga per la stessa grandezza osservata il lunedì, quando, al contrario, si osserva tipicamente un picco verso l’alto. Le medie mobili settimanali, invece, riescono almeno a mitigare le oscillazioni in più e in meno osservate di giorno in giorno, le quali sono dovute a ritardi, sfasamenti temporali delle registrazioni, errori e omissioni inevitabili in fase di una raccolta di dati che viene effettuata da soggetti diversi e con criteri non uniformi nel territorio.

Tra i dati da prendere in considerazione per programmare eventuali riaperture non ho volutamente nominato quelli relativi al “numero dei nuovi infetti” e il “numero delle persone attualmente infette”, al quale pure molto spesso si sente fare riferimento nei notiziari e nei dibattiti. In particolare, il primo dei due è il parametro utilizzato per stabilire l’entrata o meno in zona rossa, disposizione che viene adottata quando questo valore supera i 250 nuovi infetti settimanali ogni 100.000 abitanti. In effetti, dal punto di vista statistico questo dato è estremamente inaffidabile e fuorviante per una serie di ragioni. In primo luogo, perché esso dipende dal numero di tamponi effettuati. Se una regione effettua uno screening accurato e somministra un numero elevato di tamponi, il numero degli infetti osservati risulterà maggiormente elevato. In secondo luogo, perché come già osservato, c’è uno sfasamento temporale tra la data di raccolta del tampone e quella della diagnosi, distorsione che è solo parzialmente corretta osservando le medie settimanali. In terzo luogo, perché chi si sottopone a un test ha un’elevata probabilità di aver contratto il virus perché sintomatico o sottoposto a screening per essere entrato in contatto con infetti acclarati. Per questa via, pertanto, non riusciamo a misurare l’entità numerica degli infetti paucisintomatici o asintomatici, sottostimandone dunque il peso. Detto in poche parole: i dati relativi al numero di contagiati non rappresenta un campione statistico e quindi non consente generalizzazioni all’intera popolazione.

Ma è davvero così essenziale ottenere una stima affidabile del dato relativo agli infetti (sintomatici ed asintomatici)? In realtà, possiamo almeno in teoria fare a meno di questo dato se il fine è quello di identificare i punti di svolta e i vari picchi epidemici. Per studiare l’andamento della curva epidemica basta utilizzare come riferimento le altre grandezze che ho nominato in precedenza: il numero di decessi, la situazione delle terapie intensive e l’andamento del tasso di positività. Tuttavia, non possiamo prescinderne per altri motivi che sono di fondamentale importanza.

Innanzitutto, se non conosco il dato circa il numero attuale di persone infette perché non colgo il peso degli asintomatici, sottostimo la diffusione del virus sul territorio. È acclarato, infatti, che gli asintomatici sono veicolo di trasmissione come i sintomatici. Se affido il passaggio di un’area a zona rossa al rapporto infetti su 100.000 abitanti, rischio quindi di commettere gravi errori di sottostima del rischio.

Ma non solo. Anche l’ormai famoso Rt che tanto fa discutere (e che oggi a livello nazionale sembra essere sceso al di sotto della tranquillizzante soglia di 1), è un parametro stimato sulla base di un modello statistico-epidemiologico il quale ha, tra i dati di ingresso, proprio il numero di individui infetti. Se quest’ultimo valore viene stimato per difetto, anche l’Rt risulterà sottostimato.

Terza conseguenza: se sottostimo il numero degli infetti, sovrastimo la letalità del virus. Con il termine letalità, infatti, si intende una misura della gravità di un’epidemia fornita dal rapporto tra numero di decessi e numero di persone infette. Esso indica, in buona sostanza, con quale probabilità la persona infetta va incontro a conseguenze fatali. Se il numero di infetti è sottostimato, la letalità risulterà dunque, al contrario, sovrastimata.

Quarta conseguenza: se non conosco con un buon grado di precisione il numero degli infetti, non sarò in grado di prevedere correttamente la data del raggiungimento della desiderata immunità di gregge, la quale ci consentirà la tanto desiderata ripresa delle attività così essenziale dal punto di vista sociale ed economico. In particolare, se il numero di infetti risulta sottostimato, collocherò tale data più lontana nel tempo. Infatti, se una parte della popolazione è già entrata in contatto con il virus in forma asintomatica e ha dunque già sviluppato gli anticorpi, tale data risulta più vicina di quanto ci appaia dai dati ufficiali.

Il dato ufficiale ad oggi riferisce di circa mezzo milione di attualmente positivi e di poco meno di 4 milioni di persone entrate in contatto con il virus da inizio epidemia. Tuttavia in questo novero mancano appunto tutti i positivi che non sono emersi perché, in mancanza di sintomi evidenti, non si sono mai sottoposti a test, ma che, tuttavia, concorrono al conseguimento dell’immunità di gregge. Secondo le stime del nostro modello statistico, il numero di infetti è ad oggi circa quattro volte quello ufficiale. Avere contezza di questo numero e delle persone che sono già immunizzate (e che quindi non hanno necessità di vaccinarsi), è dunque di fondamentale importanza sia per pianificare adeguatamente il programma vaccinale, sia per stabilire le date delle progressive riaperture. Tuttavia, nonostante i molti interventi di statistici che hanno tentato di sensibilizzare opinione pubblica e decisori politici su questo aspetto fin dal primo insorgere dell’epidemia, non si è purtroppo fatto molto in questa direzione.

La lodevole iniziativa di un’indagine sulla sieroprevalenza dell’infezione da virus Sars-Cov-2 messa in atto congiuntamente dal ministero della Salute e dall’Istat con la collaborazione della Croce Rossa Italiana, non ha però raggiunto pienamente gli obiettivi prefissati per due ordini di motivi.

In primo luogo, l’indagine si è svolta tra il 25 maggio e il 15 luglio 2020, periodo nel quale molti italiani avevano pianificato un (agognato) periodo di vacanza. Partecipare all’indagine, la cui adesione (lo ricordiamo) era solo volontaria e non obbligatoria, avrebbe potuto portare alla luce un’infezione asintomatica, con la conseguenza di dover trascorrere un periodo di sorveglianza fino alla scomparsa dell’infezione e quindi di una rinuncia alla vacanza programmata. In conseguenza di ciò l’indagine, la quale avrebbe dovuto riguardare 150.000 individui, ne è riuscita a contattare solo poco più di 60.000 con un tasso di risposta di circa il 43%. In presenza di tassi di risposta così bassi, i risultati di indagini statistiche risultano viziati dagli errori dovuti alla cosiddetta “autoselezione del campione” e quindi poco affidabili. Il numero di infetti emerso da tale indagine, pertanto, è risultato ancora una volta una sottostima del numero reale.

In secondo luogo, per essere veramente utile a fini del monitoraggio, della sorveglianza e della pianificazione delle riaperture, un’indagine sulla sieroprevalenza avrebbe dovuto avere la caratteristica della continuità temporale con una sua ripetizione periodica almeno con cadenza settimanale. L’indagine ministero Salute-Istat, al contrario, è stata condotta in un singolo istante di tempo e, quindi non ha consentito di stimare andamenti storici e non ha potuto essere utilizzata per una sorveglianza attiva della pandemia.

A tale riguardo, abbiamo da tempo proposto un modello di campione continuativo nel tempo, il quale richiederebbe solo che poche migliaia dei circa 300.000 tamponi giornalieri venissero destinati non ai sintomatici o ai soggetti sottoposti a screening, ma ad un campione selezionato con mero criterio statistico estratto a caso da tutta la popolazione italiana.

Vorrei sottolineare, per finire, che la produzione di un dato affidabile relativo al numero degli infetti risulterebbe utilissimo non solo nella fase attuale di ondata pandemica, ma anche in fase di calo del contagio e dopo il raggiungimento dell’immunità di gregge. La fase delle riaperture e il passaggio dall’attuale stato di emergenza alla “normalità”, infatti, non devono essere pensati come un qualcosa che si realizzerà in un preciso istante di tempo, ma come un processo graduale e progressivo. E il ritorno alla normalità non coinciderà, di per sé, con la fine dell’emergenza pandemica.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI

 

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori