Nonostante i sacrifici e l’inasprimento delle misure preventive adottate per il periodo natalizio, la curva dei contagi in Italia non accenna a decrescere. +19.978 nuovi casi rispetto al giorno precedente (+0,89%), 483 morti (+0,62%), 17.040 guariti (+1,07%) 6 nuovi ingressi in terapia intensiva (+0,23%): sono i dati del 9 gennaio. Quali sono le ragioni? E perché la campagna vaccinale, su cui abbiamo puntato gran parte delle risorse e dell’impegno per i prossimi mesi, non decolla in modo deciso, come sta avvenendo invece in altri Paesi? All’origine dello stazionamento (e in alcune fasi del peggioramento) della pandemia da Covid nel nostro Paese starebbero non solo le condizioni climatiche tipiche del periodo invernale, che certamente favoriscono il virus, ma anche fattori di natura socio-politica: come ad esempio l’assenza di azioni lungimiranti, preventive. La circolazione del virus intanto aiuta il diffondersi e il moltiplicarsi delle varianti, rendendo ancora più pressante la necessità di spingere l’acceleratore sulle vaccinazioni e frenare così la circolazione del virus. Anche perché l’economia italiana in crisi non può farsi più carico di scelte e chiusure radicali. Questa la lettura di Paolo Bonanni, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Firenze e fra i massimi ricercatori nel campo dell’epidemiologia, della prevenzione delle malattie infettive e delle malattie invasive batteriche.



Professore, perché la curva dei contagi nel nostro Paese non accenna a calare?

È un insieme di fattori, anche comportamentali, e c’è una possibilità che si stia diffondendo la variante inglese o sudafricana. Ci sono diverse varianti per le quali si può sospettare un aumento della contagiosità, però tutto questo non è ancora dimostrato. Comunque, se non ci fossero le occasioni di contatto fra le persone, anche il virus più contagioso non provocherebbe contagio.



Le varianti non sono un motivo dell’aumento della curva?

La variante può essere motivo di aumento di una curva nel momento in cui le occasioni di contatto fra le persone aumentano. Al di là delle varianti, il problema probabilmente è che non riusciamo a tenere sotto controllo i contatti. A marzo eravamo tutti confinati in casa con la polizia fuori dalla porta, le occasioni di contatto erano quasi zero, si poteva al massimo andare in farmacia o al supermercato. Ora il regime è un po’ meno rigido e questo lascia più occasioni di contatto. Certamente, se andiamo alle immagini dei giorni fra il 17 e il 20 dicembre, quando eravamo liberi di circolare, i contatti sono stati più abbondanti e questo in parte può spiegare l’incremento del numero dei positivi sui tamponi effettuati, un numero che abbiamo visto risalire negli ultimi giorni.



Dunque i numeri che leggiamo oggi sono frutto dei giorni precedenti le festività natalizie?

Tenendo conto che servono un paio di settimane per vedere gli effetti, oggi stiamo vedendo probabilmente il risultato del regime di maggiore libertà avuto nei giorni prenatalizi. Il regime è a fisarmonica, questo fa sì che nei momenti di allentamento vengano favoriti i contatti e di conseguenza una mancata discesa, se non addirittura una certa risalita del numero dei contagi.

Che effetto avrebbero oggi le stesse misure drastiche di marzo?

Difficile saperlo, la cosa che mi viene in mente è che, come è stato già detto in maniera condivisibile fra gli esperti, prima raggiungiamo una copertura vaccinale e più facilmente mettiamo sotto controllo il problema, non pensando alla famosa immunità di gregge, ma anche alle varianti.

Ci spieghi meglio.

Prima fermiamo il virus, meno probabilità avremo, con tutti i cicli replicativi che il virus fa nelle diverse persone, che emergano nuove varianti. Le varianti sono un frutto della elevata circolazione del virus: più il virus circola, più si riproduce, più tende a produrre varianti che gli sono biologicamente favorevoli. Prima creiamo una barriera coi vaccini, meno facciamo circolare il virus, in questo modo limitiamo il rischio di sviluppare varianti che potrebbero minacciare di rendere meno efficaci i vaccini stessi. È un circolo virtuoso o vizioso, a seconda di come lo si vede.

La riapertura delle scuole che effetto potrà avere?

Io non sono preoccupato tanto dello stazionamento a scuola, perché mi sembra che le misure adottate siano abbastanza efficaci, la preoccupazione è sempre relativa al pre e post-scuola: mezzi di trasporto, assembramenti prima dell’entrata a scuola, eventuale permanenza dei ragazzi in compagnia dopo la fine della scuola. In classe il rischio non è zero, ma almeno è calcolato e limitato, il problema è la gestione di tutto quello che ruota intorno alla scuola.

L’ultimo Dpcm può farci prevedere variazioni della curva?

Siamo sempre lì a bilanciare fra esigenze assolutamente opposte: fra l’esigenza di frenare il contagio e quella di avere, ad esempio, una presenza fisica degli scolari o un’economia che vada avanti. Purtroppo l’equilibrio a volte funziona, a volte no, dipende anche dalle condizioni epidemiologiche in cui ci troviamo. Certamente il fatto di essere in un periodo invernale, in cui la vita si svolge molto negli ambienti interni, non ci favorisce.

Fra i provvedimenti c’è anche l’abbassamento della soglia dell’indice Rt che fa scattare il passaggio di colore per le regioni. Le sembra un aggiustamento efficace?

Sono aggiustamenti che irrigidiscono le regole, ma occorre sempre tener conto del fatto che ci sono intere categorie economiche in ginocchio. Ecco, questo è un aspetto che tira in direzione completamente opposta rispetto alla quella verso cui porterebbero considerazioni di tipo puramente sanitario, considerazioni che ci farebbero dire: chiudiamo tutto. È un gioco di molle contrapposte, ma la contingenza del clima, del periodo dell’anno e dell’emergere delle varianti gioca in senso opposto, a far sì che le stesse misure che a giugno sarebbero sufficienti in questo momento invece non lo siano.

Abbiamo puntato molto sul vaccino, come mai ora la campagna procede a rilento?

Io credo che i motivi per cui abbiamo avuto problemi a fermare la pandemia e non farla arrivare negli ospedali e nelle Rsa siano gli stessi motivi per cui adesso la vaccinazione va a rilento.

Cioè?

Per vent’anni abbiamo letteralmente distrutto la sanità territoriale, i tagli continui alla sanità si sono estrinsecati particolarmente in tagli a quella sanità che non sembrava prioritaria. Se si smantellano i dipartimenti di prevenzione e la rete territoriale delle cure, lì per lì nessuno protesta; se si taglia la chirurgia d’urgenza, protestano tutti, perché la necessità è più evidente: se vado in ospedale con un’appendicite e non mi operano posso morire.

E qual è secondo lei la causa profonda di questo modus operandi?

È il solito modo di procedere italiano, con grande miopia. Siamo il Paese dei pianti e dei lamenti di fronte alle tragedie e ai disastri, salvo poi dopo un mese dimenticarci quello che è successo e ricominciare da capo. Spendiamo cifre enormi per far fronte alle emergenze quando si presentano, ma non spendiamo nulla per metterci in sicurezza per il futuro. Siamo sempre lì ad aggiustare le cose che si rompono anziché magari farne di nuove, prevenire e garantirci per il futuro.

Un problema di visione?

È un problema di miopia politica, guardiamo solo al brevissimo termine. Se si smantella la sanità territoriale, che fa da filtro e permette di gestire le cose in maniera razionale, di non intasare i reparti e le terapie intensive, è naturale che tutti poi affluiscano in ospedale. È una mentalità che si riflette anche sull’organizzazione dei servizi vaccinali, col risultato che non disponiamo della forza lavoro necessaria per effettuare la campagna dei vaccini in modo rapido.

(Emanuela Giacca)

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