Crollo del terzo polo, sorprendente tenuta del Pd, due Regioni importanti al centrodestra. Ma l’analisi del voto regionale non può non partire dall’astensione, perché “il dato è così abnorme da porre un problema di legittimazione dell’esercizio del potere politico”, dice Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo.
Difficile anche valutare le possibili conseguenze del voto a livello nazionale. Che ci saranno: “nel prossimo futuro vedremo ulteriori sommovimenti politici e tentativi di raccordo sociale con gli elettori” osserva Mangiameli. “Se si sarà realizzata una certa stabilità politica, allora si potrà aprire il cantiere delle riforme costituzionali; altrimenti, sarà difficile persino parlarne”.
Partiamo dal fatto più significativo. Perché gli elettori non sono andati a votare?
Questo fenomeno meriterebbe un’attenzione particolare, separata dall’analisi del risultato elettorale, e dovremmo smetterla di liquidarlo dicendo che si tratta di un trend presente nelle democrazie occidentali. Primo, perché non è vero del tutto, e secondo, perché il dato è così abnorme da porre un problema di legittimazione dell’esercizio del potere politico.
Le ragioni, secondo lei?
In estrema sintesi direi che la causa principale, nel caso italiano, dove la politica conta tantissimo per l’opinione pubblica, è l’espropriazione dei diritti elettorali da parte della classe politica.
Espropriazione ha detto?
A partire dal Porcellum si è invertita la tendenza che si voleva realizzare con la legge Mattarella. Quella legge fu scritta per dare più potere agli elettori scavalcando anche i partiti politici. Da quel momento in avanti tutte le riforme elettorali sono state scritte per limitare i diritti elettorali dei cittadini e non a caso sono state censurate dalla Corte costituzionale. A questa causa, che considero la principale, ne concorrono altre.
Ad esempio?
I meccanismi elettorali e il ridimensionamento della rappresentanza politica, con il taglio dei consiglieri regionali prima e dei parlamentari dopo.
C’è stata una Opa sul Pd, come ha detto Letta?
Se c’è stata, è fallita. I dati mostrano che nel momento di massimo caos del Pd, senza una leadership, con i candidati alla segreteria protesi a scontrarsi e senza un modello di partecipazione credibile per gli iscritti e gli elettori, riuscire a superare in entrambe le Regioni la soglia del 20% è un vero successo.
Come è stato possibile?
A mio avviso, il Pd è un contenitore consolidato. Esiste una percentuale di elettori – in verità sempre meno, se consideriamo l’astensionismo – che vota sulla base del sentimento e alla quale non interessa che il Pd non abbia una politica economica, industriale, del lavoro, sociale per i giovani e le donne, per le infrastrutture, i servizi, il territorio e via dicendo.
Non sembra un fatto irrilevante.
Questa circostanza implica due aspetti. Il primo è che i vari tentativi di erodere i consensi del Pd sono destinati a fallire, mentre al contrario il centrosinistra, per vincere, deve catturare consensi che si disperdono soprattutto nell’astensionismo.
Il secondo?
Il secondo è che la coalizione di centrosinistra si deve formare attorno al Pd, come mostrano anche le regionali. Il Pd correva in Lombardia con il M5s e nel Lazio con il Terzo polo. Perciò chi guiderà il Pd, oltre a dotarlo di un progetto politico, ha davanti due alternative.
Quali?
Indurre gli alleati a formare una coalizione efficiente oppure puntare a una vocazione maggioritaria. Per questa seconda ipotesi, però, occorrerebbe una legge elettorale completamente diversa.
Il terzo polo è il grande sconfitto. Secondo Calenda si sono sbagliati gli elettori: “Il problema è che in Italia si vota per appartenenza” ha detto il leader di Azione al Corriere. Dunque per lui il progetto terzopolista rimane valido.
Gli elettori in democrazia non sbagliano mai. Questo è un assioma costituzionale. Se si mette in forse questo principio si apre la porta a tentazioni autoritarie e il massimo interprete di queste nel recente passato è stato proprio Matteo Renzi. La legge elettorale regionale è fortemente maggioritaria con un discutibile meccanismo di elezione del presidente della giunta regionale. In queste condizioni la concentrazione del voto moderato in un partito solo è praticamente impossibile.
È questa la ragione del fallimento del terzo polo?
Non solo questa. La causa principale è che sia Renzi che Calenda hanno costruito partiti a tavolino, grazie ai meccanismi usurpativi dei diritti elettorali dei cittadini. Le elezioni regionali non sono elezioni di immagine, o meglio non solo di immagine, ma soprattutto di prossimità e di territorio.
Ci spieghi meglio. Cosa intende per meccanismi usurpativi?
Molto semplicemente, non hanno raccolto le firme. Non hanno avuto bisogno di militanti e di struttura politica, come circoli, sezioni, federazioni, eccetera. E nelle regionali la mancanza di struttura pesa. È chiaro che i partiti del terzo polo non potevano farcela. Lo stesso, in qualche misura, vale anche per il M5s.
In Lombardia Conte si è alleato con il Pd ma nel Lazio è andato da solo. L’emorragia di voti che ha subito il M5s è dovuta alle alleanze?
La politica delle alleanze è stata anomala tanto per il terzo polo quanto per il M5s. Direi che la differenza di risultato con le politiche per il M5s è dovuta all’interpretazione che Conte sta dando al suo ruolo e al Movimento. Non c’è una ripresa dei temi di origine del Movimento, non c’è la capacità di parlare a tutto l’elettorato, come faceva Grillo, e si assiste a una segmentazione dei riferimenti sociali, soprattutto per via del reddito di cittadinanza, difeso ad oltranza, mentre andrebbe urgentemente rivisto. Più di ogni altra cosa, però, ciò che caratterizza la linea di Conte è la logica sottrattiva, cioè l’intento di erodere il consenso del Pd anziché costruirne uno suo.
Vede differenze politiche tra la vittoria del centrodestra nel Lazio e quella in Lombardia?
Perdere la Lombardia avrebbe significato una controtendenza rispetto al voto delle politiche, ma averla conservata, sia pure con una percentuale significativa, è una vittoria in un certo senso relativa.
Perché relativa?
Perché la situazione politica lombarda, a mio avviso, è aperta. Sia per la dialettica interna alle forze di maggioranza, sia per i tempi e i modi dell’autonomia differenziata. L’equilibrio dentro la coalizione è cambiato, prima Fontana ereditava una situazione risalente al 2018, mentre questo voto ha sancito nuovi rapporti di forza.
E nel Lazio?
Nel Lazio la situazione è ancora più fluida. Il centrodestra ritorna al governo della Regione dopo l’esperienza della Polverini e, prima ancora, di Storace. Non è che siano state amministrazioni esaltanti e la mancanza di smalto non è stato il loro unico limite. Adesso, dopo due mandati consecutivi di Zingaretti, il centrodestra dovrebbe dimostrare che sa governare i poteri regionali, che sono tanti e importanti, con capacità e lungimiranza.
Qual è la questione più pesante?
Direi quella della Capitale, Roma, che non ha avuto ancora una definizione istituzionale adeguata.
Secondo lei il voto il Lombardia e Lazio avrà effetti sul quadro politico nazionale?
Difficile dirlo. Certo hanno votato due Regioni importanti, significative in termini politici ed economici, con circa il 25% dell’elettorato nazionale. Tuttavia, le tendenze manifestate non possono essere generalizzate. Il Paese è molto più articolato. La frammentazione che caratterizza il sistema politico rende precarie le azioni tanto dei governi regionali, quanto del governo nazionale e non appare in grado di soddisfare le aspettative dei cittadini – vedi l’astensionismo. Credo che nel prossimo futuro vedremo ulteriori sommovimenti politici e tentativi di raccordo sociale con gli elettori.
Lo scenario?
Se si sarà realizzata una certa stabilità politica, allora si potrà aprire il cantiere delle riforme costituzionali; altrimenti, sarà difficile persino parlarne. Non dimentichiamoci che per farle occorre il consenso più largo e al momento questo manca.
(Federico Ferraù)
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