La riforma delle istituzioni ha assunto nel nostro paese una forma strana: non il classico “terremoto” che rinnova dalle radici l’impianto della Carta fondamentale per azzerare il patto sociale e per ricostruirlo ex novo sotto forma di un nuovo sistema di governo (presidenzialismo, semipresindenzialismo, cancellierato, ecc.), ma un bradisismo, un movimento lento, che attacca il sistema dall’esterno, con innovazioni di breve respiro, forse più dannose che utili, finalizzate a recuperare consenso e non a produrre un sistema più efficiente.



In mancanza di un disegno complessivo, prodotto da un sistema politico lungimirante e capace, si presentano  interventi spezzettati, destinati a incrociarsi tra loro e, anche, a paralizzarsi a vicenda.

È il caso dell’incrocio, che attualmente si profila, tra due referendum – la riforma del sistema elettorale e la riduzione del numero dei parlamentari – e la riforma del regionalismo (presentata sotto forma di “legge quadro” dal Governo in carica la quale, sub specie dell’attuazione dell’art. 116, III comma, in realtà vuole andare ad incidere sui rapporti – soprattutto finanziari – tra Stato e Regioni per neutralizzare, o quantomeno contenere, le aspirazioni autonomistiche delle Regioni del Nord).



A parte quest’ultimo aspetto, non secondario ma quantomeno non ancora ufficialmente messo in discussione, per il resto si percepisce nettamente la mancanza di un disegno condiviso e razionale. I sintomi?

Svariati. Si presenta un referendum abrogativo che mirerebbe a restaurare un sistema elettorale maggioritario (referendum inammissibile, secondo la maggior parte dei commentatori, perché lascerebbe il Paese senza un sistema elettorale con cui esercitare il diritto di voto, grave vulnus per qualsiasi sistema democratico) ma si tratta in Parlamento per avere un sistema proporzionale, l’unico che può ottenere la maggioranza dei consensi di un sistema politico ampiamente diviso numericamente e sostanzialmente. Si fanno riforme e si avanzano – come è pienamente lecito, del resto – proposte di abrogazione delle stesse. Si tratta per il Mes ma quasi nessuno in realtà ne percepisce la gravità, e via discorrendo. Il tutto sotto la perenne minaccia della crisi di governo e del ritorno alle urne, con quale sistema elettorale non si sa ma, probabilmente, con quello attuale.



Senza una mappa, una road map, è naturale che si creino ingorghi anche se, in questo caso, forse fin troppo enfatizzati: mettendo in ordine, dall’esterno, le cose, quello che si intravede è che vi sarà il referendum costituzionale, con scarse possibilità di successo, cosa che richiederà giocoforza un intervento sulla legge elettorale, almeno per quanto riguarda il numero dei collegi; difficilmente si voterà per abrogare il sistema elettorale, la cui inammissibilità non può sfuggire nemmeno ai suoi proponenti, cosicché il governo sopravviverà, almeno per un po’ di mesi, fino a chiudere il cerchio, e poi si ricomincerà da capo, in attesa di tempi migliori, che tutti speriamo si profilino per il bene del paese.

In questa situazione perché scomodare Corti costituzionali o Presidenti della Repubblica? A loro spettano le correzioni ai sistemi istituzionali, non la loro riprogettazione. E, fin qui, pare ne siano stati pienamente coscienti.