E se la scommessa referendaria di Matteo Salvini facesse centro? Se ne parla pochissimo, ma forse la bomba per far saltare il precario equilibrio uscito dalla crisi di governo di mezzo agosto è già stata innescata, nel disinteresse quasi generale. Lunedì ci sarà il primo passaggio chiave, il deposito in Corte di Cassazione della richiesta di referendum approvata da otto consigli regionali, Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Sardegna, Abruzzo e Basilicata. Obiettivo, un sistema elettorale maggioritario secco, praticamente all’inglese. Tutto il contrario del sistema proporzionale cui dicono di voler tornare i partiti che sostengono il governo Conte.
Il percorso è tutt’altro che scontato, ma l’attacco al cuore del sistema politico è lanciato. Il secondo passaggio, a ottobre, sarà la verifica di legittimità della richiesta avanzata dalle Regioni. E questo sarà passato piuttosto agevolmente: le Regioni richiedenti sono otto, quando ne basterebbero cinque. Pure Forza Italia ha dovuto accodarsi, nonostante le tante perplessità. Il vero bivio sarà a cavallo fra i mesi di gennaio e febbraio, quando la Corte Costituzionale verrà chiamata a discutere nel merito l’ammissibilità del quesito.
L’esito della discussione dei quindici giudici non è scontato, perché in tema di leggi elettorali l’orientamento della Consulta è sempre stato quello di ammettere solo quesiti che – se approvati – non provochino un vuoto legislativo. Il testo della domanda da sottoporre agli elettori è stato scritto con una certa abilità da parte del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, compresa la riattivazione della delega per il ridisegno dei collegi elettorali, ma potrebbe non bastare. Quesiti scritti ritagliando la legge esistente sono stati però già ammessi al voto nel 1991, 1993 e 1999, quando il quorum mancò per un soffio.
Prendiamo quindi per un attimo in esame l’ipotesi che la Corte costituzionale dica sì alla consultazione. Il referendum dovrà essere fissato in una domenica compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. È fin troppo facile comprendere come una simile appuntamento elettorale finirebbe per condizionare l’intero panorama politico. Il referendum è l’arma di Salvini per contrastare la spinta verso il ritorno al proporzionale pensata per confinarlo in un angolo della scena politica. Una condanna alla marginalità, all’ininfluenza.
Nel referendum Salvini si gioca tutto, o quasi. Dai suoi discorsi e dalle sue mosse politiche si comprende come sia pronto a scatenare l’inferno intorno all’appuntamento elettorale. Il perché è sin troppo facile da comprendere: sarebbe una chiamata alle armi al suo elettorato a partecipare perché “è l’unica cosa su cui ci fanno votare”. Non quindi un referendum sulla legge elettorale, ma molto di più, un referendum contro il governo, pro o contro Salvini stesso (con tutti i rischi connessi all’eccesso di personalizzazione della consultazione, Renzi docet). E ancora, una sfida all’ultimo sangue fra vecchio e nuovo. La palude contro la governabilità. Il vecchio dei proporzionalisti e il nuovo dei sostenitori del maggioritario. Una dicotomia quest’ultima che rischia di spaccare anche la sinistra, perché gli ulivisti come Prodi o Parisi non potranno certo schierarsi facilmente a favore del proporzionale, dopo una vita passata a combatterlo.
Fra l’elettorato di centrodestra arrabbiato, chi va a votare comunque e i sostenitori del maggioritario che sono fra le fila del centrosinistra, esiste la concreta possibilità che la difficile asticella del 50% dell’affluenza alle urne possa essere raggiunta e superata. Una questione che porrebbe a Pd e 5 Stelle un dilemma atroce: puntare sull’astensione e sperare che il quorum non venga raggiunto, oppure accettare battaglia in campo aperto.
Il referendum elettorale di Salvini potrebbe, insomma, far saltare il precario equilibrio che sorregge il governo Conte. Certo, se la Corte costituzionale dovesse dichiarare la formulazione del quesito inammissibile, per Salvini sarebbe uno smacco, ma nemmeno troppo. È sin troppo facile immaginare che userebbe l’argomento del voto negato, del colpo di mano del Palazzo che impedisce alla volontà popolare di esprimersi. La via verso il ritorno al proporzionale incontrerebbe in ogni caso ostacoli non indifferenti.