È arrivata a Palazzo Chigi consapevole della difficoltà della sfida che l’attendeva, Giorgia Meloni. Si è mossa con cautela, cercando ovunque possibile la continuità con Draghi per evitare che l’Europa e l’establishment finanziario interno ed internazionale erigessero un muro nei confronti del nuovo governo.

Ci è largamente riuscita, bisogna ammetterlo, con un fitto dialogo avviato tanto con la burocrazia di Bruxelles quanto con le parti sociali, in un clima di relativa bonaccia dei mercati (da tre settimane lo spread se ne sta buono, sotto quota 200). Sarebbe però interessante sapere se si aspettava di incontrare tanti ostacoli, insidie e trabocchetti.



Prendiamo il caso del reddito di cittadinanza, impossibile da abolire con uno schiocco di dita. O, ancora, il tetto all’uso del contante, battaglia identitaria della destra. Dopo aver annunciato il limite dei 60 euro sotto il quale accettare le carte di credito non sarebbe più stato obbligatorio, la premier ha dovuto farsi molto più guardinga per via dei segnali negativi giunti dalla Commissione europea e, da ultimo, anche dalla Banca d’Italia. Forse alla fine il tetto sarà più basso, meglio evitare uno scontro su questo terreno. Con Bruxelles c’è un contenzioso molto più grande da aprire, quello sulla revisione del Pnrr. Oggettivamente Meloni non ha tutti i torti: i costi delle materie prime schizzati alle stelle per via del conflitto in Ucraina rendono superate gran parte delle previsioni di spesa fatte nel momento del varo del Next Generation Eu. E con costi lievitati è impossibile completare le opere con i fondi previsti.



Si tratta di una partita da giocare in Europa con abilità, perché una rinegoziazione per quanto parziale del Pnrr potrebbe portare a modificare la scala delle priorità (un po’ meno green deal, un po’ più infrastrutture, tanto per capirci). Nel frattempo bisognerà fare le corse per raggiungere i 55 obiettivi imposti dall’Europa entro fine anno, un tema su cui per la prima volta la Meloni si è concessa una critica al proprio predecessore.

In fondo bisogna capirla: sinora gran parte degli obiettivi prevedevano riforme legislative e/o regolamentari, e a tappe forzate parlamento e ministeri sono stati al passo. Ora bisogna cominciare a mettere i progetti a terra, e vengono a galla tutti i limiti italiani in termine di capacità di rendicontazione nel rispetto delle regole europee. Sarà durissima chiudere tutto entro il 2026: progetti realizzati, soldi spesi e rendicontati. Ogni rata dei fondi europei dovrà essere sudata.



Segnali incoraggianti, invece, vengono da Bruxelles in termini di interesse sui grandi progetti infrastrutturali. Salvini ha trovato orecchie attente rispetto al ponte sullo Stretto di Messina, che davvero potrebbe essere l’opera manifesto del governo di centrodestra. Certo, Commissione europea e ministri degli altri Paesi chiedono di vedere un progetto solido, quindi per ora il problema è tutto italiano.

Molto più delicata, ma non impossibile, sarà la trattativa per cambiare le regole sull’accoglienza dei migranti. Aver fatto la voce grossa con la Francia ha avuto un prezzo alto, raffreddare i rapporti con Parigi, ma ha imposto un tema. Allargare le fessure per avviare un difficile negoziato richiederà molto sangue freddo, saper dosare toni sussurrati e voce grossa. Il rischio è rimanere isolati, o, peggio, nel recinto dei Visegrád, gruppo di nazioni fra le quali la Meloni ha molti amici.

Alla sua maggioranza la premier ha chiesto compattezza granitica, e pochissimi emendamenti alla manovra, che già contiene parecchi temi identitari per i partiti che la compongono. Niente fughe in avanti, come quella di Calderoli sull’autonomia differenziata. Per Fratelli d’Italia non può essere divisiva.

Se vuol mantenersi dialogante e flessibile, pur nella chiarezza dei suoi obiettivi la Meloni ha più che mai bisogno della sponda del Quirinale. Sul piano interno, ma ancor più su quello internazionale Mattarella potrebbe rivelarsi un alleato prezioso, visto anche il prestigio di cui gode all’estero. Certo, tutto questo è plausibile a patto che l’esecutivo di centrodestra non deragli sui valori fondamentali. Avere il Quirinale non ostile potrebbe rivelarsi una potente arma segreta.  E sin qui gli scontri sono stati evitati.

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